Gallery
Via San Tommaso n. 7
10122 Torino
(primo piano)
La Galleria Weber è nata nel 1976. Nel corso degli anni ha ospitato più’ di duecento mostre d’arte contemporanea. Nel 2006 la Galleria cambia denominazione diventando “Weber & Weber”.
La Galleria si e’ distinta sin dall’inizio della sua attività’ per essersi occupata di giovani artisti, sia nazionali che internazionali, molti dei quali alla loro prima esposizione. All’attività’ espositiva si e’ affiancata la casa editrice “Weber & Weber” con una produzione di volumi su artisti e situazioni artistiche di taglio contemporaneo e storico.
Attualmente la galleria si occupa, con continuità, dei seguenti artisti: Silvia Amodio, Vasco Ascolini, Sandro Beltramo, Elisa Bertaglia, Gregorio Botta, Simone Bubbico, Davide Di Taranto, Federico Guerri, Horiki Katsutomi, Roberto Kusterle, Bruno Lucca, Marcovinicio, Francesco Nonino, Greta Pasquini, Jean Revillard, Sylvie Romieu, Antonio Violetta, Natale Zoppis.
Exhibits
18.04.2025 - 07.06.2025
opening: 17.04.2025
18.04.2025 - 07.06.2025
ore 18 – 21
Alla luce della luna, tutto può accadere. La luna è una dimensione parallela a quella
del giorno, è l’altra parte del mondo, della vita. La dimensione del sogno, della
visione, dove si schiude un regno che ha le sue regole e le sue creature. Per molte
persone è un naturale senso di appartenenza, lo è per Sophie-Anne Herin, che alla
luce della luna si sente a casa, forse, anche, perché è nata vicino a un bosco, in
montagna, e la luna è la dea dei boschi e della natura, oltre che della notte.
Mon pays, c’esta la lune ci sussurra l’artista, mentre entriamo nella sua mostra che è
uno spazio a parte, dove si dissolve l’idea di realtà così come di fotografia, perché la
luna, con la sua ombra argentea, rende tutto relativo, l’apparenza e i confini tra le
cose.
La mostra nasce da un progetto che l’artista ha presentato un anno fa a Castello
Gamba, Museo d’arte moderna e contemporanea, in Valle d’Aosta, dal titolo Entre
chien et loup, un’espressione francese molto antica, che indica un momento preciso
della giornata, quando il giorno cede alla notte. Era un unico, grande ambiente
suddiviso in maniera ascensionale attraverso i tre piani del castello. L’ultimo, in alto,
alloggiato in una torretta dove lo sguardo correva circolare sul paesaggio, anche oltre
alle montagne in alcuni punti, era dedicato al sogno, un sogno dove personale e
collettivo si confondono, partendo dall’esperienza per arrivare all’archetipo.
In galleria, passando sotto a un cielo lunare che accoglie all’ingresso e suggerisce il
passaggio in una dimensione notturna, onirica e interiore, la mostra introduce nella
penombra della prima sala, dove fluttuano figure femminili ancestrali, corpi
evanescenti. Una è la Luna, dea con il pianeta al posto del capo, la luna piena di
Selene; l’altra e Baubo, con il viso che si schiude tra le gambe, dea dell’oscenità,
simbolo dell’origine del mondo, bocca della verità e della liberazione della forza
femminile.
Della stessa materia di queste figure è fatto un seme di cardo che danza nell’aria, il
suo corpo ha la consistenza dell’immagine video. Semi che sembrano in viaggio verso
destinazioni dove germogliare, che alludono anche al potere germinativo dell’arte e
dell’inconscio, degli altri mondi che si affacciano attraverso i sogni, oltre a quello
tradizionalmente attribuito alla luna.Le due figure ne sono vestali e guardiane, si sta come nel loro abbraccio, di una
femminilità lunare prismatica, che contiene varie facce.
Nell’altra sala, invece, si entra nella luce, e la visione si frammenta, l’armonia diventa
un equilibrio da ritrovare, da costruire. Una dimensione allucinatoria fatta di flash
isolati e di lunghe pause, come una partitura musicale diffusa di vuoti, tra le note che
si aggregano per quattro e per due.
È quella memoria che il sogno lascia al mattino, di una visione solo in parte rimasta
consapevole, per il resto riaffondata chissà dove. Frammenti di sogni che si fanno
angeli e demoni, icone comunque.
Sono tredici lavori che si misurano sul limitare tra luce, ombra e buio, tra il giorno e la
notte, entre chien et loup. Immagini che giocano sul negativo e positivo della
fotografia, nuotando in un nero assoluto e profondo che diventa pittura, anche
percettivamente, da cui emergono, con contrasti caravaggeschi, apparizioni
condensate nei grigi e nei bianchi.
Le immagini vivono in una sorta di conflitto tra ciò che la memoria ha perso, ciò che
ricorda, e la sua interpretazione. Si passa tantissimo tempo della vita a sognare e a
tentare di interpretare le visioni su quell’altrove, spesso fallacemente. Perché non c’è
una verità ma una narrazione caleidoscopica, mai lineare, spesso un collage di ricordi,
di riflessi, in ogni cosa, nella vita come nel sogno.
A differenza della verità, infatti, di cui l’umanità da sempre è in cerca, come di una
unica, monolitica visione e versione, così come è in cerca del senso della vita, con il
sogno si è invece obbligati a rendersi conto della relatività assoluta, della possibilità di
contenere significati e verità plurali, che non sono in contraddizione ma
complementari.
I sogni sono frammenti di relitti adagiati sul fondo del mare, che, con il moto delle
onde, si rimescolano tra le sabbie in una continua metamorfosi, oggetti divinatori che
non forniscono un’indicazione precisa ma aperta, enigmatica.
Nei dodici lavori le forme sono pure, spesso incerte, verso l’astrazione, pronte a
trasformarsi in altro, a diventare sostanza di nuovi sogni. Molte le figure ricorrenti per
l’artista, “attori” che sono persone, dai visi spesso deformati come i fantasmi, e poi
oggetti – uova, stoffe o neve, per esempio-, e animali – gatti, cervi e volpi-, questi
ultimi vere apparizioni totemiche, messaggeri la cui presenza, il cui sguardo apre ponti
e contatti, stimolando un dialogo empatico e sensoriale con lo spettatore.
Gli animali ci osservano come creature sacre, nude e spietate nella loro verità senza
filtro e nuda, davanti a loro, l’umanità nella sua finzione innaturale.
Derrida, nella sua riflessione sul rapporto tra umano e animale in L’animal que donc je
suis (2006), parlava di questa nudità: «È come se, nudo di fronte al gatto, ne provassi
vergogna». Se occorre interrogare la differenza uomo animale, non si può prescindere‐
dallo sguardo animale.
L’incertezza che lascia Mon pays, c’esta la lune è un dono di libertà, perché nei sogni
si cammina nella nebbia ed è prezioso che così rimanga, un luogo di possibilità che
non ha bisogno di confini e paletti.
Olga Gambari
Orario da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
28.02.2025 - 12.04.2025
opening: 27.02.2025
28.02.2025 - 12.04.2025
Il 27 febbraio 2025 il collettivo curatoriale Exo Art Lab presenta in collaborazione con la Galleria Weber & Weber la mostra personale dell’artista Latifa Zafar Attaii, I Could See Flowers.
I Could See Flowers, la prima personale in Italia dell’artista hazara Latifa Zafar Attaii, vuole riassumere il cuore pulsante della sua ricerca: a farne da stella polare è la nozione di identità, di cui Latifa esplora le radici al contempo personali e collettive, cercando, prima ancora di districarle, di coglierne il comune nutrimento; un nutrimento che contribuisca a irrorare quel sentiero etico-politico fondato sul diritto di esistere di ciascun individuo e sul coraggio condiviso di assumersi la responsabilità di tutelarlo.
Attraverso la sua arte – che vede un costante dialogo tra la millenaria tradizione del ricamo afghano e altri media quali, in particolare, la fotografia – Latifa setaccia la sua memoria e quella del suo popolo, recuperando tracce identitarie che il tempo e la storia sociopolitica afghana rischiano di erodere irrimediabilmente.
Due opere esposte in mostra sono apertamente dedicate al racconto – vivido e bruciante – del genocidio di cui la popolazione hazara è vittima dalla fine del 1800: Memorial thread nasce come sudario per coloro che sono state le vittime di questo eccidio dal marzo del 1995 ad oggi, divenendo una raccolta di identità cancellate in una plurale denuncia di questa tragedia; Two Thousands Individuals, invece, si fa carico di 2000 storie di vita di chi ancora lotta per la propria sopravvivenza, restituendo ciascuna di esse con una policromia di rara immediatezza, in una dialettica di svelamento e disvelamento del volto, centrale nella poetica dell’artista.
Il percorso della mostra entro le intime trame della storia hazara prosegue con una serie di banconote iraniane e afghane rivestite di pattern floreali: da vessilli delle intricate ragioni economiche che contaminano le iniziative volte alla tutela degli Hazara, esse divengono piuttosto, vivificate dai colori di Latifa, pulsanti casse di risonanza della cultura che contribuivano ad annientare.
Il ricamare diviene, in egual misura, nido sicuro dove custodire la libertà di quei volti da chi intende sottrarla e ornamento che, in Self-Portrait, lascia risuonare l’insotterrabile fierezza di narrare al mondo il polifonico bouquet simbolico-iconografico su cui si intesse l’esistenza di ciascun membro della comunità hazara.
Un’iconografia che trova nei fiori e nei loro accentuati cromatismi la cadenza etica di un intero popolo, un inno universale a rendere il quotidiano, anche durante i più duri inverni dell’umanità, una continua primavera.
da martedì a sabato ore 15:30 – 19:30
13.12.2024 - 22.02.2025
opening: 12.12.2024
13.12.2024 - 22.02.2025
Cosa proviamo, quale sensazione nell’incontrare persone, ma anche figure, libri, oggetti, dopo un discreto periodo di tempo? Qualcosa di dolce e amaro, sovente, un effetto di spiazzamento. Noi e loro. Entrambi un po’ diversi, spaesati. Un tempo né vicino né lontano, che respira ancora nel presente, lo incalza. E’ rimasto lo stesso tono di voce? O le cose vicine hanno già preso l’aura della lontananza? Come nella vita; cose che sembravano congiunte si separano, altre che sembravano distanti si avvicinano. Occorre un secondo sguardo, che è poi il vero sguardo, quello che mette a fuoco nella distanza, e lascia emergere ciò che la vita ha tessuto in silenzio. Figure inaspettate, percorsi imprevisti. Il tempo trascorso ha dato profondità, sfondo, anima. Pavese c’insegna bene: non c’è inizio fuori dal ritorno, non c’è la prima volta che non includa in sé la seconda. Conoscere è ri-conoscere.
Dario Capello
30.10.2024 - 07.12.2024
opening: 29.10.2024
30.10.2024 - 07.12.2024
Ci viene detto di vivere nel presente ma siamo sempre perseguitati dal benigno tradimento della memoria. Il mondo che incontriamo si confronta con la vaga somma delle impressioni precedenti. Love is the drug tenta di raccontare una serie di momenti catturati, immagini di un anno che passa. Per Mac Athlaoich l’esperienza pittorica è l’insieme di entrambi questi termini in gioco, catturando il processo del fare e del vedere. Ciò che viene presentato è una serie di opere, caleidoscopiche nella disposizione, che formano una propria narrativa e dialogano tra loro. I ricordi catturati attraversano il processo di uno stato onirico, fluttuando tra rappresentazione e astrazione. Viene prestata attenzione all’inquadratura dei soggetti, giocando con le strutture già pronte all’interno dell’immagine originale e consentendo, al tempo stesso, che siano eventi casuali a determinare il risultato del dipinto. Il gioco di perdere e riconquistare un acquisto sulla memoria si svolge in tutta la serie. I dipinti di Mac Athlaoich trattano idee di materialità, processo e percezione. Le sue opere si collocano tra figurazione e astrazione, esplorando lo spazio di mezzo. La sua pratica mette in discussione il nostro rapporto con l’immagine prodotta in serie. Il materiale proveniente da piattaforme social online e l’autodocumentazione costituiscono un punto di partenza per esplorare idee di pathos e idillio contemporanei. Colm Mac Athlaoich (1980, Dublino, Irlanda) lavora e viaggia tra l’Irlanda e il Belgio. Ha studiato e lavorato con maestri incisori di The Graphic e The Black Church Print Studios. È stato co-fondatore e co-direttore della Monster Truck Gallery and Studios, Dublino. La sua precedente carriera come incisore, illustratore e musicista ha formato la sua pratica pittorica.
Orario da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
20.09.2024 - 26.10.2024
opening: 19.09.2024
20.09.2024 - 26.10.2024
Luce e ombra, bianco e nero, l’uno per l’altro per rendersi sensibili, tangibili, visibili. In Flowering clouds a svilupparsi è un doppio dialogo: uno interno, già dato e intrinseco nelle singole opere e un altro invece esterno, che viene a instaurarsi nella relazione da un lato dalle opere di Simone Bubbico e dell’altro dalle opere del duo Federica Patera e Andrea Sbra Perego. La luce rende visibile, ma è nell’ombra che avviene la restituzione della forma. Luce e ombra si danno vicendevolmente ovunque vi sia implicato un terzo elemento, quello del comunicabile. Ciò inevitabilmente apre alla dimensione temporale: contestuale come dinamica generale e riferita ad un passato presentificato come dinamica specifica. L’ombra reale data dalla terza dimensione, l’ombra rappresentata della mimesis, l’ombra metaforica che sulla carta rende visibile e leggibile una parola. La forma, il segno, la parola. E le «parti» di cui si costituiscono. L’idea di parte, di frammento, è rinvenibile tanto nell’opera di Bubbico quanto nell’opera di Patera e Perego: incarnata da un lato nella forma corporea non integra, dall’altro lo è nella forma della parola, della lettera. Ma la differenza formale lascia il passo a una rinvenibile concordanza d’intenti: che il frammento sia il luogo del potenziale, in quanto da esso dell’altro può prender vita. È dunque la parte che sta al tutto e che fa di quest’ultimo uno spazio in divenire, aperto, includente e indefinibile, come il confine delle cose che, sempre agognato e mai raggiunto, fa di se stesso la dimensione del possibile.
Irene Rossetti
19.04.2024 - 13.07.2024
opening: 18.04.2024
19.04.2024 - 13.07.2024
Sulla scena internazionale, Roberto Kusterle è un noto artista visivo e un fotografo che si contraddistingue per uno stile fotografico spiccatamente personale e per un’estetica riconoscibile basata sulla fotografia di messa in scena. Nelle sue opere crea un mondo che è frutto della sua immaginazione, dove il confine tra il reale e l’immaginario svanisce. Il motivo centrale della maggior parte delle fotografie dell’artista sono le creature fantastiche raffigurate nel processo di metamorfosi da una forma di vita ad un’altra, da uomo ad animale, a vegetale o ad altri elementi naturali. Le sue immagini ibride sono il punto di partenza per riflettere sul rapporto tra uomo e natura, sull’alienazione e su una possibile simbiosi tra di essi. Inizialmente il processo creativo del fotografo coinvolgeva anche la pittura corporale dei modelli, una lunga preparazione dei loro costumi, la scenografia e la regia delle scene surreali. L’opera finale del suo lavoro era la fotografia. Dal 2010 l’artista crea scene singolari tramite il fotomontaggio digitale. Kusterle certamente usa queste tecniche manipolative con uno scopo ben preciso: rendere visibile la sua concezione della vita che nell’ultimo ciclo fotografico include anche lo scorrere del tempo. La base del lavoro è costituita dalle fotografie di vecchie carte dell’archivio goriziano con la struttura superficiale decisamente marcata e il deterioramento: le lacerazioni, le sgualciture, le pieghe, i bordi strappati, i bolli scoloriti, le macchie d’inchiostro e l’ingiallimento, che son derivati dalla conservazione di lunga durata. Si può notare, inoltre, che i vari scatti delle vecchie carte d’archivio sovrapposti danno vita ad una sequenza compositiva ben stabilita, con la quale l’autore crea l’illusione di profondità su una superficie bidimensionale. A prima vista, sembra che le vecchie carte costituiscano solamente la base per le immagini delle figure umane tratte dal suo archivio personale, tra le quali ci sono anche le fotografie analogiche di vecchia data, e questo è un approccio alquanto diverso. Le opere mostrano chiaramente figure femminili e maschili ritratte fino alla vita, ricoperte quasi del tutto con l’argilla, considerata da Kusterle come materia originale (materia prima). Il contatto dei corpi con la terra, quindi, segna la loro metamorfosi sia in creature fantastiche dal corpo umano e la testa animale che conosciamo dalla mitologia antica, sia in creature silenziose con gli occhi chiusi, che sono rivolte verso il proprio mondo interiore e fluttuano nell’assenza di spazio. Anche le coppie e i gruppi di corpi nella maggior parte delle immagini sono rappresentanti con posture tese e inconsuete oppure intrecciati tra di loro in abbracci spasmodici, che danno un’impressione di inquietudine e tensione sia a livello fisico che spirituale. Tuttavia, in questo ciclo le figure non sono affatto l’obiettivo principale della ricerca dell’artista. Vale a dire, l’attenzione centrale è posta all’equilibrio cromatico e tonale tra le figure e la base cartacea, ottenuto soprattutto attraverso la sottrazione del colore e dei forti contrasti. Nella maggior parte delle immagini la grana della pelle e dei vestiti si fonde con la carta, mentre le singole figure sono quasi trasparenti, immerse nello sfondo con il quale formano un tutt’uno. Questo effetto viene accentuato dall’artista attraverso vari dettagli creati con gli strumenti digitali: l’ingiallimento e le macchie, le lacerazioni e i fori presenti si diffondono dalla carta alla superficie dei corpi. Lo spettatore non può più distinguere tra i frammenti originali e quelli ricreati con l’aiuto delle nuove tecnologie o tra la superficie della pelle e la carta. Anche nel suo ultimo ciclo Kusterle esplora il sottile confine tra realtà e finzione, completamente cancellato con la comparsa dei programmi digitali. D’altra parte, le sue opere si riferiscono agli inizi della fotografia, soprattutto alla ricerca di Henry Fox Talbot, inventore del negativo, che ha consentito la riproduzione delle immagini fotografiche. In alcune opere Kusterle ha unito i positivi e i negativi in coppie per aumentare la tensione visiva, caratteristica della sua espressione fotografica con la quale costantemente induce ad una riflessione sull’identità della fotografia. La fusione del reale e dell’immaginario, dell’umano e dell’animale/vegetale, dell’animato e dell’inanimato, ovviamente, porta anche lo spettatore a cercare in scene ambigue nuovi significati che si possono legare sia al passato sia allo stato d’animo contemporaneo. Nataša Kovšca
Orario da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
31.01.2024 - 06.04.2024
opening: 30.01.2024
31.01.2024 - 06.04.2024
Le campiture di Rodrigo Blanco, in piena e leggibile evoluzione con il lavoro che si sta delineando negli ultimi anni, prendono il sopravvento sugli elementi linguistici. Nelle distese uniformi si delinea una sorta di deserto nel quale l’essere pare esodato, a dispetto della tela, dei curatori, del pubblico, dell’artista stesso. Egli governa ma cede come a perdersi nel soggetto che origina nel quadro, ovvero nel luogo che lo ospita quasi di scorcio. Allora più che esodo è esondazione, è l’idea di moltiplicarsi attraverso le pareti, è affresco potenziale. I quadri mettono in mostra la magniloquenza della campitura, con il contrappunto di radi alfabeti pittorici che tracciano le linee di una sorta di elemento pompeiano perenne. Ma come a recuperare il senso della presenza dell’artista-autore che forma il mondo ed in esso agisce anche come entità politica, Rodrigo Blanco lascia dialetticamente spazio al disegno a carboncino nell’atto di fissare alcuni istanti nello spazio antropomorfo. L’origine della presenza disegnata prende momentaneamente il sopravvento su tutte le superfici, su tutte le presenze di vibrazione pura.
La questione dell’istante è centrale. E anche il suo realizzarsi attraverso l’occupazione del “suolo” della superficie pittorica.
La superficie è l’agognata meta di ogni essere umano. Si conosce la superficie del corpo e si lotta per rimanere vivi su quella del mondo. Il lavorio di essere, di esistere, di non scomparire è perciò il grido e il canto di ciascuno. La superficie è il campo della presenza e del desiderio. La linea sottile di demarcazione tra il sublime e l’infernale. Si dice crosta per la pelle ispessita e per il quadro sbagliato, per i muri fatiscenti e per la lamiera che arrugginisce, ma al di là del disprezzo verso tutto ciò che non è liscio, è la crosta terrestre il nostro unico campo d’azione. È attraverso di essa che il nostro mondo entra nella sfera del possibile. È semplicemente il qui ed ora di ciò che prima era magmatico e inafferrabile.
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Fabio Vito Lacertosa
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Dinamismo di una figura statica, olio su tela, 150×100 cm, 2021
02.11.2023 - 20.01.2024
opening: 31.10.2023
02.11.2023 - 20.01.2024
Nella nuova mostra personale A Place for Lost Things, Damien Flood continua a spingere e provocare i limiti e i confini della pittura e della loro stessa realizzazione. Una domanda centrale nella pratica di Flood è come, nei tempi moderni, un artista possa raffigurare il mondo che lo circonda. Negli ultimi tre anni attraverso la ceramica Flood ha trovato un nuovo modo di esprimersi inserendo nel suo lavoro significati diversi e più diretti. Il processo di lavorazione dell’argilla rafforza il collegamento con le idee di un passato storico e archeologico, scavare per portare alla luce manufatti ultraterreni. La ceramica inserita nei e fra i dipinti permette a questi di prendere vita e seguire il proprio percorso nel mondo come individui. In questa nuova serie di lavori Flood presenta allo spettatore principalmente dipinti di grandi dimensioni accanto a piccole opere in ceramica che si integrano e interagiscono con elementi di vari stili, approcci e tecniche. I dipinti sembrano costruire un mondo statico, fermo nel bel mezzo del più totale disfacimento in grado di porre domande e riflessioni allo spettatore. Le ceramiche, invece, invitano il pubblico a interrogarsi sul ruolo degli artefatti e su come affrontiamo culturalmente l’inevitabile sfumatura sarcastica presente in questi lavori. Queste opere sono state realizzate con lenta fatica proprio per invitare l’osservatore a una lenta visione. I dipinti possono essere suddivisi in interni ed esterni, ovvero, gli interni mostrano qualità antropomorfe; i confini tra ciò che è animato e inanimato sono sfumati. Mentre negli esterni nuovi elementi ‘vitali’ entrano nei lavori dell’artista.
Valeria Ceregini
15.09.2023 - 28.10.2023
opening: 14.09.2023
15.09.2023 - 28.10.2023
Sentieri di giunco è il nome che ho pensato per questa serie di paesaggi perchè in origine questo tipo di vegetazione mi ha ispirato molto. Il mio lavoro in effetti si origina in luoghi naturali dove sentieri, staccionate, recinti e confini rappresentano un microcosmo geografico che forma la visione del mio paesaggio. Mi piaceva l’idea di sottolineare il mio segno a bastoncino con cui lavoro da sempre e inoltre il giunco da quel senso di geometria e ordine che mi rispecchia anche quando è rappresentato nel groviglio o nel disfacimento. L’idea di lavorare sul paesaggio e la natura non sono quindi nuovi per me, ma hanno trovato un nuovo vigore circa tre anni fa con il lavoro che ho intitolato Jack London perché in quel periodo lo stavo leggendo e perché alcune sue visioni rappresentavano una matrice per uno scenario selvaggio. Alcuni di questi paesaggi sono stati realizzati a cavallo di maggio, il mese dell’alluvione nella città dove vivo (Cesena) e per me contengono appunto questa lotta implacabile tra l’ordine e la natura.
Federico Guerri
16.06.2023 - 09.09.2023
opening: 15.06.2023
16.06.2023 - 09.09.2023
ore 18:00 – 21:00
da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
La profondità purpurea del cielo è scossa da un improvviso fragore, inaudibile e accecante insieme, che lacera lo spazio della tela, mentre si staglia, immobile e severa, un’alta torre rosseggiante. Poco a poco, intravediamo dettagli che ci turbano: un cratere imprevisto, un’ombra fantasmagorica, o ancora, in lontananza, la silhouette di un carro che sfreccia verso la città più vicina. Non ci troviamo in una leggenda o in un sogno, bensì in Tower (2022), opera scaturita dal vasto immaginario di Bogdan Koshevoy (Dnipro, 1993), artista ucraino da lungo tempo residente a Venezia. Koshevoy, giovane pittore figurativo e visionario al contempo, presenta in questa mostra personale un nuovo ciclo di opere che costituisce il naturale prosieguo della sua ricerca attorno all’architettura e al paesaggio. Infatti, i protagonisti prediletti dall’artista di Dnipro sono spesso edifici caratterizzanti le aree interne dell’Ucraina, costruiti lungo tutto il corso del Novecento e lasciati poi in abbandono o demoliti intenzionalmente dopo la fine della dominazione sovietica. Pur rimanendo saldamente ancorato ad una rappresentazione d’ispirazione realistica, Koshevoy ci mostra paesaggi dagli echi fantastici, a tratti mitici, certo non privi di elementi disturbanti, talora grotteschi. In queste mostre l’atmosfera è perlopiù pervasa da un senso di inquietudine che accompagna la rivelazione di tragedie appena avvenute, colte altrimenti nel momento stesso in cui esse si compiono, se non l’annuncio di vere e proprie catastrofi. Mai del tutto disabitati, questi luoghi accolgono e rigettano a più riprese una vasta fauna umana e zoologica, un catalogo di presenze sopraffatte da lotte, agguati, scoperte inattese, mutazioni, oppure, dove la portata degli eventi acquisisce dimensioni più epiche, da fenomeni atmosferici e astronomici dalle conseguenze inarrestabili.
Da un punto di vista identitario, Koshevoy ama definirsi come il frutto di un intreccio di culture, un connubio di influenze ben esplicato dagli eclettici edifici ucraini la cui storia, secondo l’artista, non è mai stata sufficientemente studiata e valorizzata. Partendo dai relitti dell’età zarista per giungere a quanto lasciato in rovina durante la crisi economica seguita al dissolversi dell’URSS, Koshevoy rende un personale e accorato omaggio a intere pagine di architettura destinate alla damnatio memoriae, una stratificazione emblematica di stili e fasi politiche dal valore spesso controverso. Ci rendiamo poi conto che, spesso, niente è esattamente come appare: Tower, ad esempio, non è altro che un serbatoio idrico dall’aspetto inusualmente elegante agli occhi degli occidentali, mentre il carro sullo sfondo riprende fedelmente un giocattolo di propaganda sovietica passato di generazione in generazione, fino ad essere raccolto dalle mani del pittore. Ai serbatoi seguono altrettanto solitarie magioni, fabbriche mai del tutto dormienti, parchi divertimenti malinconicamente proiettati nel futuro (Zvezdnij Teleport, 2022), mentre prevale il calore del mattone e non mancano finestre illuminate, ancor più sorprendenti nel momento in cui suggeriscono scene da racconto giallo alla Agatha Christie (A murder in the blue house, 2022). Tutt’attorno si dispiega una natura lussureggiante, a tratti esotica, spesso sconfinante in praterie d’un verde accecante, cui si alternano tonalità più polverose, fino a rappresentare gli esiti di una vera e propria apocalisse indeterminata nel tempo e nello spazio (Solitude, 2023), dove scheletri di epoche geologiche e specie diverse emergono dalla terra riarsa, magra consolazione per l’avvoltoio sullo sfondo, unica creatura eletta ad una, seppur breve, sopravvivenza. Da sempre affascinato dal mondo animale, Koshevoy ha già mostrato in opere precedenti l’idilliaca convivenza tra creature considerate estinte ed esseri umani (come si può vedere in Cretaceous Utopia, 2021), quasi un possibile risvolto utopico di quanto prefigurato nel film muto The Lost World (Harry Hoyt, 1925), immaginando un equilibrio tra specie e civiltà altrimenti incompatibili. In queste nuove opere, invece, la presenza animale si fa perlopiù sinistra, se non antagonista, facendo precisi riferimenti alla simbologia naturale nella storia dell’arte occidentale: ad esempio, la scimmia è frequentemente associata al demoniaco (Encounter with the pink demon, 2022), mentre il coniglio può rimandare ad una sessualità sfrenata. Il paradiso si fa sempre più corrotto e in fiamme (Invasion, 2022), mentre le viscere della terra si aprono su dimensioni sconosciute (Out of curiosity, 2023). Stando a quanto affermato dallo stesso artista, la steppa totale dell’Ucraina viene trasfigurata al punto da diventare non solo un luogo mentale turbato dall’inconscio, ma un vero e proprio spazio della memoria. Nonostante il loro destino avverso, le architetture di Dnipro si trasformano a loro volta in un simbolo, un autentico punto di riferimento per la vita di Koshevoy, il quale ha scelto Venezia, da sempre considerata la porta d’Oriente, per proseguire prima gli studi e poi la carriera artistica: il luogo ideale per iniziare a scoprire il mondo e, al tempo stesso, riscoprire sé stessi.
Eleonora Ghedini