Gallery
Via San Tommaso n. 7
10122 Torino
(primo piano)
La Galleria Weber è nata nel 1976. Nel corso degli anni ha ospitato più’ di duecento mostre d’arte contemporanea. Nel 2006 la Galleria cambia denominazione diventando “Weber & Weber”.
La Galleria si e’ distinta sin dall’inizio della sua attività’ per essersi occupata di giovani artisti, sia nazionali che internazionali, molti dei quali alla loro prima esposizione. All’attività’ espositiva si e’ affiancata la casa editrice “Weber & Weber” con una produzione di volumi su artisti e situazioni artistiche di taglio contemporaneo e storico.
Attualmente la galleria si occupa, con continuità, dei seguenti artisti: Silvia Amodio, Vasco Ascolini, Sandro Beltramo, Elisa Bertaglia, Gregorio Botta, Simone Bubbico, Davide Di Taranto, Federico Guerri, Horiki Katsutomi, Roberto Kusterle, Bruno Lucca, Marcovinicio, Francesco Nonino, Greta Pasquini, Jean Revillard, Sylvie Romieu, Antonio Violetta, Natale Zoppis.
Exhibits
15.09.2023 - 28.10.2023
opening: 14.09.2023
15.09.2023 - 28.10.2023
Sentieri di giunco è il nome che ho pensato per questa serie di paesaggi perchè in origine questo tipo di vegetazione mi ha ispirato molto. Il mio lavoro in effetti si origina in luoghi naturali dove sentieri, staccionate, recinti e confini rappresentano un microcosmo geografico che forma la visione del mio paesaggio. Mi piaceva l’idea di sottolineare il mio segno a bastoncino con cui lavoro da sempre e inoltre il giunco da quel senso di geometria e ordine che mi rispecchia anche quando è rappresentato nel groviglio o nel disfacimento. L’idea di lavorare sul paesaggio e la natura non sono quindi nuovi per me, ma hanno trovato un nuovo vigore circa tre anni fa con il lavoro che ho intitolato Jack London perché in quel periodo lo stavo leggendo e perché alcune sue visioni rappresentavano una matrice per uno scenario selvaggio. Alcuni di questi paesaggi sono stati realizzati a cavallo di maggio, il mese dell’alluvione nella città dove vivo (Cesena) e per me contengono appunto questa lotta implacabile tra l’ordine e la natura.
Federico Guerri
16.06.2023 - 09.09.2023
opening: 15.06.2023
16.06.2023 - 09.09.2023
ore 18:00 – 21:00
da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
La profondità purpurea del cielo è scossa da un improvviso fragore, inaudibile e accecante insieme, che lacera lo spazio della tela, mentre si staglia, immobile e severa, un’alta torre rosseggiante. Poco a poco, intravediamo dettagli che ci turbano: un cratere imprevisto, un’ombra fantasmagorica, o ancora, in lontananza, la silhouette di un carro che sfreccia verso la città più vicina. Non ci troviamo in una leggenda o in un sogno, bensì in Tower (2022), opera scaturita dal vasto immaginario di Bogdan Koshevoy (Dnipro, 1993), artista ucraino da lungo tempo residente a Venezia. Koshevoy, giovane pittore figurativo e visionario al contempo, presenta in questa mostra personale un nuovo ciclo di opere che costituisce il naturale prosieguo della sua ricerca attorno all’architettura e al paesaggio. Infatti, i protagonisti prediletti dall’artista di Dnipro sono spesso edifici caratterizzanti le aree interne dell’Ucraina, costruiti lungo tutto il corso del Novecento e lasciati poi in abbandono o demoliti intenzionalmente dopo la fine della dominazione sovietica. Pur rimanendo saldamente ancorato ad una rappresentazione d’ispirazione realistica, Koshevoy ci mostra paesaggi dagli echi fantastici, a tratti mitici, certo non privi di elementi disturbanti, talora grotteschi. In queste mostre l’atmosfera è perlopiù pervasa da un senso di inquietudine che accompagna la rivelazione di tragedie appena avvenute, colte altrimenti nel momento stesso in cui esse si compiono, se non l’annuncio di vere e proprie catastrofi. Mai del tutto disabitati, questi luoghi accolgono e rigettano a più riprese una vasta fauna umana e zoologica, un catalogo di presenze sopraffatte da lotte, agguati, scoperte inattese, mutazioni, oppure, dove la portata degli eventi acquisisce dimensioni più epiche, da fenomeni atmosferici e astronomici dalle conseguenze inarrestabili.
Da un punto di vista identitario, Koshevoy ama definirsi come il frutto di un intreccio di culture, un connubio di influenze ben esplicato dagli eclettici edifici ucraini la cui storia, secondo l’artista, non è mai stata sufficientemente studiata e valorizzata. Partendo dai relitti dell’età zarista per giungere a quanto lasciato in rovina durante la crisi economica seguita al dissolversi dell’URSS, Koshevoy rende un personale e accorato omaggio a intere pagine di architettura destinate alla damnatio memoriae, una stratificazione emblematica di stili e fasi politiche dal valore spesso controverso. Ci rendiamo poi conto che, spesso, niente è esattamente come appare: Tower, ad esempio, non è altro che un serbatoio idrico dall’aspetto inusualmente elegante agli occhi degli occidentali, mentre il carro sullo sfondo riprende fedelmente un giocattolo di propaganda sovietica passato di generazione in generazione, fino ad essere raccolto dalle mani del pittore. Ai serbatoi seguono altrettanto solitarie magioni, fabbriche mai del tutto dormienti, parchi divertimenti malinconicamente proiettati nel futuro (Zvezdnij Teleport, 2022), mentre prevale il calore del mattone e non mancano finestre illuminate, ancor più sorprendenti nel momento in cui suggeriscono scene da racconto giallo alla Agatha Christie (A murder in the blue house, 2022). Tutt’attorno si dispiega una natura lussureggiante, a tratti esotica, spesso sconfinante in praterie d’un verde accecante, cui si alternano tonalità più polverose, fino a rappresentare gli esiti di una vera e propria apocalisse indeterminata nel tempo e nello spazio (Solitude, 2023), dove scheletri di epoche geologiche e specie diverse emergono dalla terra riarsa, magra consolazione per l’avvoltoio sullo sfondo, unica creatura eletta ad una, seppur breve, sopravvivenza. Da sempre affascinato dal mondo animale, Koshevoy ha già mostrato in opere precedenti l’idilliaca convivenza tra creature considerate estinte ed esseri umani (come si può vedere in Cretaceous Utopia, 2021), quasi un possibile risvolto utopico di quanto prefigurato nel film muto The Lost World (Harry Hoyt, 1925), immaginando un equilibrio tra specie e civiltà altrimenti incompatibili. In queste nuove opere, invece, la presenza animale si fa perlopiù sinistra, se non antagonista, facendo precisi riferimenti alla simbologia naturale nella storia dell’arte occidentale: ad esempio, la scimmia è frequentemente associata al demoniaco (Encounter with the pink demon, 2022), mentre il coniglio può rimandare ad una sessualità sfrenata. Il paradiso si fa sempre più corrotto e in fiamme (Invasion, 2022), mentre le viscere della terra si aprono su dimensioni sconosciute (Out of curiosity, 2023). Stando a quanto affermato dallo stesso artista, la steppa totale dell’Ucraina viene trasfigurata al punto da diventare non solo un luogo mentale turbato dall’inconscio, ma un vero e proprio spazio della memoria. Nonostante il loro destino avverso, le architetture di Dnipro si trasformano a loro volta in un simbolo, un autentico punto di riferimento per la vita di Koshevoy, il quale ha scelto Venezia, da sempre considerata la porta d’Oriente, per proseguire prima gli studi e poi la carriera artistica: il luogo ideale per iniziare a scoprire il mondo e, al tempo stesso, riscoprire sé stessi.
Eleonora Ghedini
14.04.2023 - 10.06.2023
opening: 13.04.2023
14.04.2023 - 10.06.2023
h 18 – 21
Incantati, silenziosi, rarefatti. Sono questi gli ambienti in cui il fotografo Ugo Ricciardi libera un immaginario buio e luminoso in perfetto equilibrio. Un’ idea nata per caso, giocando con le luci di Natale dei figli, e sostenuta dalla necessità di solitudine, silenzio e natura. Il principio è fondamentale: applicare l’idea al paesaggio, evidenziando l’intervento del fotografo. L’ ispirazione è unica: l’ inconscio. Così l’autore trasforma luoghi a lui familiari in visioni magiche in cui l’oscurità e la luce della luna fanno da sfondo a misteriose entità lucenti. Essenziale è l’uso del bianco e nero che aiuta ad uscire dal realismo del colore, portando lo sguardo al di là della superficie in un piano in cui lo spazio e il momento sono assoluti. Il metodo di lavoro è lungo e impegnativo. Di giorno la scelta delle inquadrature, gli alberi, le radici e i sassi, fantasticando su quello che potrebbe succedere durante il plenilunio, quando il chiarore della luna crea ombre lunghe e silenti. Di notte la sperimentazione con i cerchi di luce artificiale che nella penombra si animano di nuova vita, prendendo contorni diversi, sfuggevoli, mentre tutto il resto è ammantato dalle tenebre. Il risultato è “Nightscapes”, un mondo sospeso tra realtà e sogno, caratterizzato da ombre di luce fumosa, in cui la messa in scena regna sovrana, mentre la simmetria e la geometria degli spazi rendono saldo il concetto. Un percorso spirituale e artistico per cercare la propria strada, annunciato in apertura dalle scie di luce che accompagnano l’osservatore ad addentrarsi nell’inconscio senza cercare un senso se non alla fine. Ed ecco il primo passo, ci troviamo faccia a faccia con una simbolica porta di ingresso sormontata dall’unica vera musa di Ugo, la luce. Una guida in un’atmosfera irreale, dove i momenti di transizione e osservazione coesistono in una pace quasi ultraterrena. Un luogo di passaggio, abitato da anime luminose in perfetta simbiosi con la natura, che avvolgono l’ osservatore facendolo diventare parte stessa di quel mondo. Una realtà che ci viene svelata appena e che lascia spazio all’immaginazione e al significato personale. È proprio questo l’obiettivo finale di Ugo Ricciardi, riscoprire l’ importanza di una visione individuale e soggettiva, facendo di “Nightscapes” un’ascesa onirica alla creazione artistica.
Vanessa Ferrauto
Iceberg and circle of light#1, Iceland, 2021
10.02.2023 - 08.04.2023
opening: 09.02.2023
10.02.2023 - 08.04.2023
Artisti: Carlo Battaglia – Gregorio Botta – Gianni Del Bue Chiara Dynys – Gillian Lawler – Bice Lazzari Colm Mac Athlaoich – Pino Mantovani – Carol Rama – Stefan Sehler – Sergio Sermidi – Trudi Van Der Elsen Michael Van Ofen – Antonio Violetta – Valentino Zini
La Galleria Weber & Weber ha raccolto, in questa mostra, quindici autori già incontrati ed esposti nel corso degli anni. Cosa proviamo, quale sensazione nell’incontrare persone, ma anche figure, libri, oggetti, dopo un discreto periodo di tempo?
Qualcosa di dolce e amaro, sovente, un effetto di spiazzamento. Noi e loro. Entrambi un po’ diversi, spaesati. Un tempo né vicino né lontano, che respira ancora nel presente, lo incalza. E’ rimasto lo stesso tono di voce? O le cose vicine hanno già preso l’aura della lontananza? Come nella vita; cose che sembravano congiunte si separano, altre che sembravano distanti si avvicinano. Occorre un secondo sguardo, che è poi il vero sguardo, quello che mette a fuoco nella distanza, e lascia emergere ciò che la vita ha tessuto in silenzio. Figure inaspettate, percorsi imprevisti. Il tempo trascorso ha dato profondità, sfondo, anima. Pavese c’insegna bene: non c’è inizio fuori dal ritorno, non c’è la prima volta che non includa in sé la seconda. Conoscere è ri-conoscere.
Dario Capello
Stefan Sehler, Senza titolo, 1995, olio su tela, cm 200×150
03.11.2022 - 21.01.2023
opening: 02.11.2022
03.11.2022 - 21.01.2023
La galleria partecipa a:
TORINO ART GALLERIES NIGHT #25
SABATO 5 NOVEMBRE 2022 ore 17,00 – 24,00
&
TAG Art Coffee Breakfast
venerdì 4, sabato 5 e domenica 6 novembre dalle ore 9:30 alle ore 12
La mostra documenta l’opera di Horiki Katsutomi (1929-2021), artista colto e raffinato, nato in Giappone. Dopo la laurea in Ingegneria, si trasferisce in Italia per dedicarsi totalmente alla pittura. Frequenta l’Accademia Albertina di Torino, esordendo con opere caratterizzate da segni astratti, da lui definiti “impronte”, che collocava in vasti campi bianchi o neri. Dagli anni ottanta torna quindi a impostare la sua pittura sul colore con un ciclo di dipinti ispirati a Piero della Francesca, Storia della Vera Croce, mentre dagli anni novanta lavora su temi ripresi dall’Odissea. Della sua pittura Horiki scrive: “Cerco un linguaggio universale per parlare con me stesso e con gli altri, per capire il mio essere e fare capire come penso, quindi come sono, ad altri, per confrontare e correggere la mia rotta. Anche a costo di fare una lunga tortuosa strada. […] La mia vita è la mia opera”.
da martedì a sabato ore 15:30 – 19:30
16.09.2022 - 29.10.2022
opening: 15.09.2022
16.09.2022 - 29.10.2022
La mostra La goccia scava la pietra, personale dell’artista Simone Bubbico (Torino, 1984), ricorda nel titolo e visivamente l’azione leggera, lenta della goccia che scava la pietra erodendola, ma nelle opere di Bubbico è correlata alla natura che sempre lentamente e inesorabilmente si riprende i suoi spazi. La serie Resilience, concepita durante il periodo dei lockdown pandemici, include sculture di ispirazione classica le cui fessure contengono fiori di campo che, in alcune parti, trapassano i calchi gentilmente, alludendo si a un processo naturale di riappropriazione, sia a una compenetrazione sempiterna tra la natura e l’uomo. In mostra è presente anche la serie In Bloom e Singolarità, il disegno con lightbox che fa da ponte con la serie Dark Matter.
Quest’ultima è frutto di una ricerca artistica di Bubbico che perdura da tempo, basata su giochi di luce e ombre e strettamente collegata alla passione dell’artista per l’astronomia.
In queste opere dalla scomposizione materica vengono ottenute delle ombre corporee attraverso l’utilizzo della luce, le quali ricordano le ombre cinesi. L’oscurità, qui definita dalle silhouttes fumate, crea delle narrazioni nascoste ricordando il mito della caverna platonico che qui ha intenti ambivalenti e ambigui, in bilico tra la realtà e il fittizio.
Giulia De Sanctis
Il vuoto è forma IV, 2022, Creta fiori e luce led, cm 210x30x100
20.05.2022 - 23.07.2022
opening: 19.05.2022
20.05.2022 - 23.07.2022
orari apertura da martedì a sabato ore 15:30 – 19:30
La Galleria Weber & Weber ospita la mostra fotografica “The Life and Death of Marina Abramović” ad opera di Omid Hashemi, fotografo ufficiale del progetto operistico e stretto collaboratore della celebre artista performativa Marina Abramović. L’idea di questa pièce teatrale, meditazione generale di vita e di morte, inizia nel 2007 quando l’Abramović telefona al noto regista teatrale Robert Wilson affinché lui mettesse in scena la sua morte -“ Solo se posso anche mettere in scena la tua vita” rispose. All’incrocio tra teatro, opera e arte visiva, il regista d’avanguardia Robert Wilson dirige e racconta la straordinaria vita e il prolifico lavoro dell’artista Marina Abramović partendo dalla sua difficile infanzia in una Belgrado controllata dai sovietici. L’opera ha come protagonista l’artista che recita nei panni di sé stessa e della madre, e vede come co-protagonista l’attore Willem Dafoe, il tutto accompagnato dalla splendida colonna sonora e canzoni del cantante e compositore Antony Hegarty. I racconti di vita dell’Abramović si alternano così a intime canzoni, significativamente come in “Santi Ascendono”: “Dio condanna / Coloro che feriscono gli altri / Ma cosa pensa / Di una donna che affligge il dolore / Su sé stessa? La performance ebbe la sua prima mondiale negli Stati Uniti, al Manchester International Festival nel 2011, e da allora è stato replicato numerose volte sul palcoscenico con un grande successo di pubblico. Per la mostra sono state selezionate 12 fotografie dell’artista iraniano Omid Hashemi che da anni collabora con l’artista serba e insegna la sua Méthode. Omid, osservando dal suo angolo durante le esibizioni, è riuscito a catturare e restituire ritratti intimi di questo incredibile pezzo poetico di teatro biografico. Gli elementi macabri dei ricordi di Marina sono trasformati, capovolti, in qualcosa di meraviglioso e dalle tinte umoristiche. Su sfondi dai chiaroscuri cangianti si stagliano le figure che, seppur reali visivamente, sembrano appartenere a un rituale misterico in un affondo nel dramma e durezza dell’esistenza. L’atmosfera è onirica dove dimensione umana e ultraterrena si confondono acquisendo un effetto ipnotico – sulle note di Antony: “That is my destiny. I became a Volcano of Snow”. Omid Hashemi attraverso inquadrature frontali dà vita a sequenze di scatti leggeri e visionari, fissando abilmente il dramma di una delle più celebri e controverse personalità dell’arte contemporanea dalla sua nascita fino alla sua ipotetica fine, in un continuo gioco dove il protagonista resta il proprio corpo e i propri limiti. La rassegna narra i racconti sopravvissuti di questa “quasi opera”. Eleonora Tartarelli La mostra è stata curata da Saeed Khavar Nejad e realizzata grazie alla collaborazione con l’Istituto internazionale SAFPEM (Middle East & Europe Specialized Institute of Contemporary Arts), con sede a Parigi e Toronto, che da anni è attivamente impegnato nel valorizzare e promuovere l’arte contemporanea del Medio Oriente nel contesto artistico occidentale.
Omid Hashemi
Nato nel 1986 a Teheran, Omid (Seyed Habib Hashemi) è un artista e ricercatore. Si è trasferito frequentemente a causa della sua situazione familiare; dal 1989 al 1993 in Turchia, poi in Pakistan. Nel 2006 si è trasferito a Parigi per completare i suoi studi presso l’Università di Parigi VIII con una tesi di dottorato in Aesthetics, Science and Technology of the Arts, presso questa Università è poi diventato docente.
È stato nel febbraio 2009, a Parigi, che Omid ha incontrato Marina Abramović.
L’ha poi accompagnata nel giugno 2009 a Manchester per seguire il suo lavoro, e l’anno successivo a Madrid. Marina Abramovic accettò di diventare la sua insegnante e da allora tra i due artisti si è creato uno stretto sodalizio.
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Special Thanks to my Life Master, Marina Abramovic
Omid_Hashemi (Photographer)
Saeed Khavar Nejad (Curator of the Exhibition in Italy) SAFPEM_Institute (Exhibition Organizer in Middle East & Europe) Carlomaria Weber and Alberto Weber (Weber & Weber Gallery Owners) Eleonora_Tartarelli (Texts & Member of Managing board in Italy) De_Ketelfactory_Gallery (Video materials)
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#LIFE_AND_DEATH_OF_MARINA_
Robert Wilson (Concept, Director, Designer) Marina_Abramović (Co-creator)
Antony Hegarty (Composer & music curator) William_Basinski (Composer & music curator)
Jacques_Reynaud (Costume Designer) Anne-Christin_Rommen (Associate Director)
Performers: Marina Abramovic, Ivan Civic, Amanda Coogan, Willem Dafoe, Andrew Gilchrist, Antony Hegarty, Elke Luyten, Christopher Julian, Nell Kira O’Reilly, Antony Rizzi, Carlos Soto, Svetlana Spajic, Svetlana Spajic, Group (Minja_Nikolic, Zorana_Bantic, Dragana_Tomic), Gael_Rakotondrabel, Matmos, Doug_Wieselman, Oren_Bloedow
Credits: Commissioned by Manchester International Festival & Teatro_Real_Madrid with Theater Basel, Art Basel, Holland Festival, Salford City Council & deSingel
Produced by Manchester International Festival & Teatro Real Madrid & The_Lowry
25.03.2022 - 07.05.2022
opening: 24.03.2022
25.03.2022 - 07.05.2022
La mostra Manipulated Genes si basa sulle ultime produzioni d’arte contemporanea degli artisti iraniani dei nuovi media. Questo progetto fa parte di una serie di tre mostre parallele in Francia, Italia e Germania. Le opere selezionate si compongono di due parti principali; la prima parte comprende 26 video-art di 19 video artisti iraniani. Gli artisti presenti sono Nikzad Arabshahi, Omid Hashemi, Samad Ghorbanzadeh, Mehrnoosh Roushanaei, Nastaran Safaei, Mandana Moghaddam, Hamed Sahihi, Behnam Kamrani, Morteza Ahmadvand, Shirin Abedinirad, Soheil Kheirabadi, Alireza Khosroabadi, Farideh Shahsavarani, Alireza Memariani, Kambiz Sabri , Nima Nikakhlagh, Elmira Abolhasani, Rosita Taheri e Avazeh Almasi. La seconda parte della mostra è composta da opere di 4 fotografi contemporanei iraniani tra cui: Bijan Sayfouri, Melina Clade, Samad Ghorbanzadeh e Alireza Memariani. Gli artisti selezionati hanno fatto grandi tentativi per le arti dei nuovi media in Iran e in altri paesi negli ultimi due decenni. Inoltre, un gran numero di questi ha ricevuto premi speciali in importanti eventi internazionali.
Il curatore ha preso in considerazione il metodo e lo stile delle arti dei nuovi media iraniani, unici per quanto riguarda il metodo e la forma. Il trattamento del soggetto, lo stile narrativo e il contenuto locale relativamente diverso hanno contribuito alla creazione di una forma esotica (sebbene a volte incompleta rispetto alla sua forma/stile) nei nuovi media iraniani. I principi determinanti di questa formazione sono più radicati nella storia. I nuovi media non possono attirare un’attenzione significativa nelle istituzioni artistiche del paese e la presentazione di queste opere è spesso vista come un’azione artificiale dal punto di vista dei produttori e dei registi. Dopo più di due decenni di nuove produzioni mediatiche in Iran, un gran numero di influenti gallerie d’arte non prendono in considerazione queste nuove produzioni e le vedono come media non provati o poco affini al pubblico iraniano. Indubbiamente, questa situazione non è compatibile con la ricerca dell’indipendenza caratteristica dell’arte contemporanea. Pertanto, gli artisti di questo media inevitabilmente introducono le loro opere in cortometraggi, festival di animazione o biennali di arte contemporanea di altri paesi. I loro lavori suscitano molto entusiasmo internazionale, la video-art iraniana ha trovato la sua forma e il suo spazio in uno stato interdisciplinare dell’arte occidentale e orientale.
Saeed Khavar Nejad
14.01.2022 - 12.03.2022
opening: 13.01.2022
14.01.2022 - 12.03.2022
Gillian Lawler, da sempre interessata al paesaggio e alla sua memoria dove spesso risiede la tensione tra il reale e l’immaginario, esplora nuovamente in questa serie di dipinti inediti, Edgelands, i concetti di confini, bordi, transizioni e trasformazioni rielaborando quegli insediamenti abbandonati, tipici della sua ricerca, attraverso la contrapposizione di un reale immaginario e di uno realmente reale. L’artista continuando sempre a rinnovare il proprio linguaggio pittorico, sulla base anche di esperienze private e professionali, di recente ha iniziato a suddividere la tela in due territori tracciando una linea di demarcazione dove forme geometrico-astratte si incrociano, si trasformano, si dissolvono o si assorbono fino a diventare territori della mente; spazi meditativi per l’artista abitati da piattaforme e impalcature che le consentono di riflettere sull’idea di trasformazione e transizione della vita stessa. L’esplorazione di questi luoghi surreali si è ulteriormente intensificata in Edgelands assottigliando il divario tra questo mondo e il prossimo cogliendone la caducità della vita composta da fugaci momenti in assenza di tempo e spazio alla ricerca di una terra senza confine, di un mondo interiore situato tra il conscio e l’inconscio. I suoi fondali, semplici spazi vuoti, le permettono di immaginare una linea temporale o una dimensione alternativa di questi luoghi astratti composti da sistemi fluttuanti in perenne divenire. Molti degli elementi presenti sono, infatti, semplificati, ridotti all’essenza, per creare prospettive ardite attraverso una serie di strutture indefinite e singolari visioni concettuali di spazio, tempo ed esistenza. Questi luoghi eterei abitati da improbabili elementi, che appaiono talvolta vistosi altre volte mimetizzati da elaborati motivi, creano paesaggi onirici tali da sovvertire il reale dando vita a una fusione tra i due mondi. Edgelands si focalizza proprio sul desiderio di abbattere queste frontiere tra l’onirico e il reale, un mondo inviolato fatto di corpi indistinti e talvolta invisibili che si connettono attraverso l’uso simbolico del colore verde. Quel colore “la qual mistione si estende verso l’infinito” (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, 1540) verso mondi lontanissimi e territori mistici. Non è un caso, infatti, che il noto sensitivo torinese Gustavo Rol usasse proprio il verde, simbolo stesso dell’equilibrio, situato al centro dell’iride, per la sua straordinaria energia, per il dominio della materia. È da lui così annotato nel suo diario: «Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore» (28 luglio 1927). È in queste poche parole racchiuso il segreto di quella che Rol definì “coscienza sublime”, termine con il quale indicava il punto di arrivo di quell’alchimia spirituale e di quella forza creatrice che gli permetteva di aprire le porte di mondi sottili, ovvero di dimensioni invisibili che coesistono all’interno della realtà tridimensionale del mondo materiale. Anche secondo la mitologia celtica si presume che gli spiriti siano in grado di viaggiare tra mondi (Tir nAill, parola gaelica per definire l’“altra terra”) attraversando gli assi naturali. Le svariate strutture di colore verde negli ultimi lavori di Gillian Lawler diventano pertanto punti di incontro e connessione nel tentativo di attraversare o connettere questi mondi invisibili o altri strati di esistenza diventando nuovi assi naturali e richiamando così l’attenzione su questi confini geometrici come nuovi luoghi di possibilità, mistero e bellezza. VALERIA CEREGINI
Orari di apertura
Da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
03.11.2021 - 23.12.2021
opening: 02.11.2021
03.11.2021 - 23.12.2021
Aperta da martedi a sabato, ore 15.30 – 19.30
L’artista irlandese residente a Bruxelles, Colm Mac Athlaoich, ripercorre le fasi della retorica aristotelica
del percepire inteso come perceptum. L’oggetto della percezione dell’artista riguarda la lettura
dell’oggetto pittorico come elemento figurativo e rappresentativo di un soggetto reale che viene
trasfigurato dall’artista sulla tela. Tale processo astrattivo tipico della pittura di Mac Athlaoich sottende
però tematiche più profonde legate alla percezione dell’opera in sé e a ciò che essa rappresenta e sta a
significare.
L’artista, che da principio ha percorso a ritroso le fasi del percepire partendo dal pathos e passando per il
logos, è ora giunto all’ethos, a quella fase iniziale che stabilisce il ruolo centrale dell’oratore nel disporre
le proprie argomentazioni. Così Mac Athlaoich si pone come un oratore visivo che espone le sue
argomentazioni relative al significato intrinseco delle bandiere. Egli ci pone di fronte alla questione
metaforica e narrativa delle bandiere che con la loro iconicità e immediatezza figurativa ci comunicano dei
messaggi politici e sociali. L’intento dell’artista però non è quello di polemizzare o definire alcun
messaggio politico-sociale, bensì quello di destrutturare le immagini per destabilizzare il messaggio e
svelare i vari livelli comunicativi affinché rimanga sulla tela solo l’essenza delle bandiere come elementi
figurativi deducibili spesso solamente dai titoli.
Attraverso il titolo, e quindi l’uso delle parole associato alle immagini, riscopriamo l’importanza della
parola, o per meglio dire parole secondo il binomio saussuriano della langue e della parole, ovvero la
distinzione fra l’aspetto collettivo e sociale (langue) e il segno linguistico (parole). Inoltre, il titolo
assume il compito di metalinguaggio in quanto ci porta a desumere l’immagine in oggetto che secondo la
stessa etimologia antica della parola ‘immagine’ si intende imitari, ovvero un’imitazione del reale. Ed è
proprio ciò che fa Colm Mac Athlaoich: imitando immagini tratte dal reale – immagini provenienti dal
proprio archivio fotografico o reperite su internet sui social media – scompone il messaggio denotato
della fotografia, l’analogon, per introdurci all’interno di un messaggio connotato dall’osservatore che è qui
chiamato come un lector in fabula ad accogliere e completare cognitivamente l’opera che come “un testo
vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare” poiché “è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte
del proprio meccanismo generativo” (U. Eco, Lector in Fabula, 1979).
Questa nuova serie di opere invita, pertanto, alla cooperazione interpretativa fra l’osservatore e l’artista e
a un meccanismo generativo di senso che cambia continuamente a seconda dell’osservatore e
dell’interpretazione che ne conseguirà. L’artista, come un narratore, dà sfogo alla sua creatività
interpretativa dell’oggetto simbolico ‘bandiera’ lasciando però completa libertà sia interpretativa che
visiva all’osservatore che è invitato attivamente a completare l’opera attraverso la propria sensibilità
emotiva e intellettiva. Ogni stratificazione di colore, forma e senso è arbitraria e ciò dimostra come
l’artista voglia oggettivare e destrutturare la bandiera per guardarne all’essenza e sovvertirne il
significato percettivo ed etico.
Valeria Ceregini
Con il sostegno di: Culture Ireland