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16.12.2022 - 21.01.2023
opening: 15.12.2022
16.12.2022 - 21.01.2023
opening: giovedì 15 dicembre 2022 h.17.00
rewind – mostra collettiva di fine anno – ripercorre i progetti, le mostre, le fiere e gli eventi organizzati dalla Galleria Umberto Benappi nel corso del 2022. Saranno presenti una selezione di opere degli artisti che ci hanno accompagnato nel calendario espositivo di quest’anno.
Ha dato il via al 2022 la mostra Levia Gravia, a cura di Francesca Canfora e Roberto Mastroianni nella quale le opere di Paolo Grassino, Domenico Borrelli e Carlo D’Oria (scultori torinesi mid-career) hanno giocato un ruolo di primo piano. Sin dalla scelta dei materiali e dei linguaggi tradizionali della scultura, le opere dei tre artisti richiamano la tradizione scultorea che viene riarticolata nelle forme e nei linguaggi del contemporaneo.
I progetti a cura di Lóránd Hegyi hanno portato in Galleria opere di artisti di fama internazionale, tra cui lo scultore spagnolo Bernardì Roig (presentato in occasione di Challenging Body) e il pittore Gianni Dessì, tra i fondatori della “Nuova Scuola Romana” (presente nella mostra Encounter Narratives).
Parte della collettiva sarà dedicata anche ad opere storiche di alcuni importanti artisti della seconda metà del ‘900, tra cui Salvo e Mario Schifano (già inseriti nella mostra del 2021 “L’estate sta finendo” dedicata agli anni ’80 a cura di Luca Beatrice) e presentate recentemente in occasione di Artefiera, durante la quale sono state riproposte al pubblico una selezione delle opere e il catalogo del progetto espositivo.
Saranno inoltre presenti alcuni lavori di giovani artisti contemporanei, tra cui l’installazione Ed è subito sera dell’artista romana Guendalina Urbani, vincitrice del Premio Young-under 35 della Regione Lazio.
Aldo Mondino | Giulio Turcato | Mario Schifano | Mario Nigro | Mino Delle Site | Salvo | Asger Jorn | Nicolay Diulgheroff | Umberto Mastroianni | Luigi Veronesi | Gianni Dessì | Bernardí Roig | Paolo Grassino | Domenico Borrelli | Carlo D’Oria | Gisella Chaudry | Francesca Dondoglio | Guendalina Urbani
29.09.2022 - 12.11.2022
opening: 28.09.2022
29.09.2022 - 12.11.2022
La Galleria Umberto Benappi di Torino ospita nei sui spazi Encounter Narratives, a cura di Lóránd Hegyi, primo appuntamento della rassegna Promenade.
Promenade è un progetto espositivo, composto da tre mostre, il cui intento è quello di concentrarsi sulla rivisitazione delle visioni estetiche ed artistiche di una specifica generazione di artisti, la cui carriera e il cui destino sono stati profondamente legati agli anni ’80. I giovani artisti della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, anziché continuare la creazione di movimenti, di metodi e di nuove versioni del mito modernista, hanno proposto un linguaggio visivo radicalmente eclettico basato su una combinazione soggettiva di cultura, storia, mitologia e riferimenti etnografici. La pittura, in ogni suo stile, conquistava l’interesse di gran parte dei giovani talenti; così esempi, tratti dalla storia dell’arte, da costellazioni antropologiche e da riferimenti archetipici e mitologici, si sono mescolati a soggetti emotivi, intimi e ad immagini pittoresche e fantasiose, riempiendo le tele. Promenade mette il pubblico a confronto con l’opera pittorica di alcune figure rappresentative di questo periodo di transizione caratterizzato da fondamentali cambiamenti concettuali riguardanti la storia, la mitologia, l’arte e le metafore culturali. La maggior parte delle opere presentate sono opere contemporanee che rivelano l’attuale orientamento dei loro creatori pur evocando contesti specifici degli anni ’80, momento in cui nuove ed inedite connessioni culturali tra i diversi campi delle esperienze e delle proiezioni umane sono entrati a far parte della prassi artistica.
La mostra Encounter Narratives presenta una selezione complessa e multistrato di opere di tre artisti provenienti da Italia, Austria ed Ungheria. Tre pittori della stessa generazione i cui esordi sembrano inseparabili se si considerano i profondi e fondamentali cambiamenti del paradigma dell’arte tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Questo periodo turbolento ha visto, da un lato la delegittimazione lentamente affermata di alcune strategie tardo-moderne, la perdita di credibilità di qualsiasi formalismo elitario e di sistemi tautologici riduttivi, e la revisione dell’ottimismo espansionistico dell’Avantgarde, dall’altro una svolta appassionata ed eloquente verso il soggettivismo, l’eclettismo e le narrazioni personali, introverse, o meglio indirizzate verso l’appropriazione soggettiva di certe metafore culturali mitologiche e archetipiche. Riferimenti storici e modelli psicoanalitici e antropologici sono stati inseriti in vocabolari visivi di nuova elaborazione, basandosi su citazioni libere e fluide, su citazioni di linguaggi eterogenei dell’intera storia dell’arte, così come su segnali di “bassa” cultura, su sistemi segnici sub-culturali urbani e persino su modelli etnografici. Possiamo osservare un’apertura radicale anche verso soggetti letterari e mitologici, così come l’eliminazione di alcuni tabù modernisti come l’evitare la resa mimetica del mondo visibile e la confessione della necessaria evoluzione verso la purezza e l’astrazione. Al suo posto si ripropone anche la ricerca di identità personali e micro-comunitarie, la ridefinizione della concretezza e dei sistemi di valori pluralistici. Come chiaramente formulato da Arthur C. Danto: “la concretezza dei sé concreti nelle loro società immediate” è diventata il vero soggetto di un universo visivo eclettico sofisticatamente elaborato. Esempi reinterpretati e attualizzati del Manierismo, del Barocco, del Romanticismo, del Simbolismo o della Pittura Metafisica sono stati integrati, o meglio fusi, in nuove organizzazioni linguistiche di segnali e modelli di diversa origine e l’auto-interrogazione del ruolo dell’artista è diventata una delle questioni centrali del pensiero artistico postmoderno.
Gianni Dessì, tra i fondatori della mitica “Nuova Scuola Romana”, Alois Mosbacher una delle figure di spicco del gruppo artistico austriaco “Neue Malerei” e László Fehér, uno dei pittori più paradigmatici del “New Sensibility”, hanno tutti avuto un ruolo decisivo a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 nel loro contesto culturale di origine, rispettivamente in Italia, Austria e Ungheria. Tutti e tre i pittori hanno partecipato a numerose importanti mostre di quel periodo e di fatto hanno influenzato il profondo cambiamento del paradigma dell’arte negli anni ’80.
Pur essendoci un determinato tipo di dialogo tra gli artisti, la struttura di questa mostra si basa sulla presentazione personale di ciascuna opera, ossia sull’enfatizzare specifici metodi individuali dell’organizzazione di sistemi visivi e di modellazione delle immagini, oltre che rivelarne le specifiche narrazioni incarnate nella loro pittura.
La voce di Gianni Dessì riflette l’immagine dell’artista intellettuale, l’artista inteso come pensatore, il cui oggetto di studio è l’intera storia culturale, a partire dall’eredità dei grandi Maestri, dalla biblioteca della memoria e dalla raccolta di esempi del passato. Il suo atteggiamento si basa sulla rivisitazione del Manierismo e del Romanticismo; il suo lavoro si ispira a modelli di riferimento e di reinterpretazione della storia dell’arte. Esamina i sistemi visivi della rappresentazione di alcune realtà intelligibili e di modelli che mettono in discussione la posizione dell’artista e dell’opera d’arte nell’orientamento universale. Così facendo, il lavoro di Dessì propone una lettura parallela: da un lato la ricerca drammatica, profondamente personale e interrogativa, di definizioni del destino individuale, nonché del percorso dell’artista, e dall’altro l’aspetto intellettuale e ontologico della localizzazione universale della rappresentazione artistica dell’insieme. Gianni Dessì crea immagini drammatiche di autoritratti, e allo stesso tempo reinterpreta e reintroduce vecchi schemi e modelli tradizionali dell’auto-rappresentazione dell’artista come soggetto universale, come immaginario collettivo dell’uomo sofferente. La capacità o l’incapacità di parlare, gridare ed esprimere i propri sentimenti e visioni creano così, nell’opera di Dessì, una narrazione drammatica.
Alois Mosbacher ha elaborato un enorme arsenale di oggetti enigmatici, non definiti, figurazioni strane e inesplicabili, che rappresentano elementi della natura e oggetti combinati artificialmente. Nel fascino della sua pittura spazi misteriosi, confusi, labirintici, foreste e campi con alberi, fiori e piante, e l’intera ricchezza vegetativa, si trasforma permanentemente in un mondo di oscurità caotico, irrazionale e irritante. L’universo pittorico di Alois Mosbacher offre una metafora visiva della nostra realtà come un palcoscenico oscuro, irrazionale e un po’ teatrale, privo di una struttura interna chiara, che manca di coerenza e logica e sembra funzionare sotto la direzione di regole invisibili, inesplicabili e irrazionali. Allo stesso tempo, paradossalmente, il suo pittoresco mondo pittorico appare come qualcosa di naturale, di fondamentalmente probabile e credibile, quasi evidente e vegetativo, organico e vivido. In modo sovversivo, Alois Mosbacher ci mette a confronto con un universo nascosto del nostro mondo interiore, con un impero dimenticato, ma ancora vivido e potente, di immaginazione libera e illimitata, in cui probabilità e improbabilità si mescolano tra loro creando una giocosa incertezza.
L’approccio di László Fehér, alla memoria e alle esperienze storiche collettive, o meglio al doloroso processo di irreversibile perdita di questa memoria, alla lenta scomparsa di precedenti vite e destini, riempie di emotività il suo universo pittorico e provoca, attraverso le sue immagini, una immediata partecipazione, o meglio una autoidentificazione catartica. L’opera di Fehér testimonia l’orientamento intellettuale per eccellenza della sua generazione, che ha iniziato l’attività artistica a metà degli anni ’70 e l’ha consolidata negli anni ’80 e ’90. Al centro del suo lavoro artistico ci sono il ripensamento e la rivalutazione delle capacità narrative della pittura contemporanea, la creazione di una narrazione complessa e referenziale, che riflette diversi livelli e aspetti del nostro orientamento estetico ed etico basato sulla molteplicità anche di sistemi linguistici visivi e sulle loro connotazioni referenziali, nonché sulla molteplicità delle identità e sulla contestualizzazione culturale.
Il ripensamento radicale della struttura epica, la reinvenzione delle narrazioni, la drammaturgia sottile e intelligente, poetica ed emotiva costruiscono un linguaggio pittorico solido e trasparente, che trasferisce una visione complessa della coscienza storica e culturale dei nostri giorni. Allo stesso tempo, la concretezza dell’esperienza personale nella pesante realtà storica e dello specifico destino individuale – per lo più come elemento sofferente, vulnerabile, passivo degli eventi – determina l’universo pittorico dell’artista.
28.05.2022 - 30.06.2022
opening: 27.05.2022
28.05.2022 - 30.06.2022
26.02.2022 - 10.04.2022
opening: 25.02.2022
26.02.2022 - 10.04.2022
La mostra collettiva a cura di Lóránd Hegyi, organizzata e ospitata dalla galleria Umberto Benappi Arte Contemporanea di Torino, presenta una selezione di opere di Gloria Friedmann, Paolo Grassino e Bernardí Roig che mettono lo spettatore di fronte a immagini intriganti, enigmatiche, eccentriche e irritanti ispirate al corpo umano o animale o meglio a creature organiche, ibride, estremamente vitali, inserite in scenografie teatrali strane, oniriche o spettacolari e in situazioni allucinate e psichedeliche. Queste travolgenti connotazioni letterarie, creano narrazioni attorno ai corpi o alle formazioni corporee, in parte per le loro suggestive evocazioni poetiche, in parte per le loro riserve immaginarie che comprendono fiabe liriche, incontri romantici con la natura e con il mondo animale, o esplosioni e tensioni, a volte anche conflitti, scontri aggressivi ed esperienze drammatiche di lotta permanente. Probabilmente questo sguardo nell’oscurità dell’anima umana ospita una lettura profonda dei corpi animati presenti in mostra, che aprono la strada verso un immaginario nascosto archetipico e mitologico.
Anche se le sculture e gli ambienti scultorei, a volte scioccanti ed irritanti, di Bernardí Roig mettono lo spettatore a confronto con situazioni di pesanti conflitti, di pressione insopportabile, di incapacità di difendersi, di angoscia e vulnerabilità, suggeriscono tuttavia anche un eroismo nascosto basato sul riconoscimento della resistenza e dell’intransigenza umana. L’opera di Bernardí Roig manifesta l’inevitabile potere che hanno le forze nascoste, sconosciute, misteriose, spesso negative, distruttive e spaventose e, allo stesso tempo, rivela orizzonti di una empatica comprensione delle possibilità di trovare le origini di una nuova autocoscienza e resistenza.
La radicale rivisitazione e reinterpretazione della tradizione scultorea europea nella rappresentazione del corpo umano e animale, nonché l’ampliamento offensivo delle competenze connotative di modellare le formazioni corporee, è stato per lungo tempo uno dei temi centrali dell’opera di Paolo Grassino. Attraverso la contestualizzazione del corpo umano o animale – o di frammenti di corpo – ha aperto la forma scultorea verso configurazioni teatrali ampie, spesso monumentali e drammatiche, che producono spazi tematici inquietanti, irrazionali, inconsci e incontrollabili di instabilità, incertezza, lotta per l’autodeterminazione e la sovranità. Questo aspetto eroico del combattimento e del conflitto, presta una certa connotazione romantica al suo lavoro mentre l’enigmatica incertezza, l’oscurità pittoresca e la favolosa ricchezza di avventure, incarnate nei suoi assemblaggi scultorei, rafforzano la sensazione di condivisione di un’esperienza, senza precedenti, di partecipazione ad un universo sconosciuto dominato da forze invisibili, incalcolabili, imprevedibili.
Mentre da un lato Paolo Grassino salvaguarda i metodi di rappresentazione quasi classica del corpo umano e conserva alcuni elementi basilari della grande tradizione mimetica dell’arte occidentale, dall’altra distrugge ogni convenzione compositiva classica e opera in modo eversivo attraverso la delegittimazione irreversibile di ogni classica coerenza spazio-temporale. Questa disorganizzazione quasi isterica e turbolenta, violenta e sovversiva destrutturazione di qualsiasi drammaturgia scultorea convenzionale, riempie la sua opera dell’inquietudine contemporanea per eccellenza, che evoca un sentimentalismo recentemente valorizzato e una partecipazione emotiva all’universo poetico virtuale incarnato nella sua opera. Questo immaginario teatrale, pesante, drammatico, irritante di conflitti e sacrifici, di paure e speranze, di lotte e dubbi, testimonia l’oscura complessità e l’impegnativa incertezza della nostra vita.
Anche l’approccio di Gloria Friedmann al corpo umano e animale, alle formazioni corporee organiche che imitano o evocano il corpo, rivela un modo differente di contestualizzazione – culturale, mitologica ed etnografica – del corpo, in cui la competenza simbologica dell’arte gioca un ruolo determinante. I suoi corpi sono modellati da un complesso processo di fusione di forme organiche, naturali, vivide con forme di diversa origine, sia organiche che inorganiche, ovvero fondendo corpi umani, o frammenti di corpi umani, con forme-simbolo rituali, culturali, magiche che traggono origine dal modello del corpo umano o animale. Dimostra una sorprendente strategia parallela, o meglio un doppio processo, di reciprocità. Da un lato, elabora a partire dall’oggetto rituale, magico, cultuale, dalla forma-simbolo, dal totem, dall’icona – il cui modello originario era un tempo il corpo reale, vivo, che si è sublimato fino a diventare un puro simbolo – e successivamente torna verso la vita, torna alla natura; rivitalizza la forma-simbolo, riempie di vita il totem, resuscita l’icona, così la forma-simbolo si trasforma in corpo vivente. Dall’altro lato, parallelamente alla trasformazione, l’artista elabora – partendo dal corpo reale, sensuale, vivo, concreto – la forma/simbolo impalpabile, la rende astratta, la deindividualizza e ne crea un totem. Nel processo di rivitalizzazione delle forme-simbolo rituali, magiche, non individuali, le separa dalla loro prassi rituale convenzionale – collettiva – in cui esse hanno svolto un ruolo ben determinato e le libera dal contesto della prassi magica, donando loro una nuova vita organica, una forma vivida, individuale, unica, un ruolo autonomo, che attira reazioni empatiche e provoca risposte emotive da parte dello spettatore.
Il momento profondamente sorprendente, e in qualche modo irritante, di queste strategie parallele è molto probabilmente il modo in cui Gloria Friedmann crea nuovi esseri autentici, vividi, organici e autonomi, fondendo i corpi creati da questi due processi di trasformazione reciproca. Mentre questi nuovi corpi ibridi indossano tutto il decoro dei loro potenziali ruoli culturali, rappresentando ancora un certo significato allegorico o magico e suggerendo funzioni rituali, allo stesso tempo appaiono come corpi viventi, sensuali, come esseri autonomi e organici, come parte della natura grande, illimitata e potente. Sono estremamente sensuali, suggeriscono vita e sentimenti, irradiano libertà, diffondono sovranità e dignità. In questo senso, non appartengono né al mondo astratto e impalpabile di simboli, totem o icone, né alla realtà materiale organica, vegetativa, inconscia, sensuale, elementare ma ad un altro luogo: ad un universo sconosciuto, immaginario, visionario, nutrito dalle energie spirituali e dall’immaginario illimitato.
Pur lavorando apparentemente all’interno della grande tradizione occidentale della rappresentazione mimetica del corpo, tutti e tre gli artisti in mostra mettono in discussione questa eredità attraverso il loro irritante e intrigante plasmare di nuove specie di esseri che prendono il loro posto con vitalità ed evidenza all’interno della nostra vita.
16.12.2021 - 29.01.2022
opening: 16.12.2021
16.12.2021 - 29.01.2022
Levia Gravia è una mostra collettiva di arte contemporanea, a cura di Francesca Canfora e Roberto Mastroianni, organizzata e ospitata dalla galleria Umberto Benappi Arte Contemporanea di Torino, che presenta un dialogo intergenerazionale tra le differenti poetiche di tre artisti, ormai consolidati protagonisti della scena nazionale e internazionale (Paolo Grassino, Domenico Borrelli, Carlo D’Oria), con tre giovani e promettenti artiste emergenti (Gisella Chaudry, Sacha Turchi, Guendalina Urbani), mettendo in scena un confronto tra approcci differenti, ma complementari, che pongono al centro la scultura intesa come pratica narrativa e sperimentazione sui materiali, le forme, le tecniche e i linguaggi del contemporaneo. Levia Gravia, delle cose leggere e delle cose pesanti, intende dunque indagare, attraverso la presentazione di alcune recenti opere scultoreo installative dei sei artisti, la dimensione plurale del reale e degli sguardi che su di esso si pongono al fine di afferrare, conoscere e comprendere il costituirsi di un mondo condiviso, in cui le narrazioni sociali, culturali e morali devono fare i conti con le differenza di genere, di classe e cultura e con la molteplicità delle forme e dei materiali, articolando quell’ossimoro che tiene insieme leggerezza e pesantezza e che caratterizza la presenza dell’umano nel mondo, in cui il “pesante” e il “leggero” convivono completandosi senza escludersi a vicenda. Cos’è LeviaGravia? In principio è un ossimoro, l’accostamento di due termini in contrapposizione, che tiene assieme il “grave” e il “lieve”, rimandando a quell’espressione latina, Levia Gravia (dagli aggettivi levis e gravis, entrambi con lo stesso significato giunto a noi nella lingua italiana), divenuta famosa per il titolo di una raccolta di poesie di Giosuè Carducci, pubblicata nel 1867 e ispirata a un verso dei Tristia di Ovidio, che indicava le cose leggere per sentimento, ma pesanti (difficili) da fare. In questa mostra l’ossimoro, figura retorica tra le più intriganti che la lingua possa utilizzare, diventa concetto operativo e curatoriale e viene utilizzata nella sua valenza metaforica ed enfatica, al fine di attirare l’attenzione dell’interlocutore e del fruitore e, al contempo, delineare lo spazio di una dimensione sospesa e senza nome, in cui è costretto a muoversi l’umano. La dimensione antropologica si trova, infatti, sempre circoscritta dalla pressione della pesantezza del reale (l’ambiente, la pressione delle pulsioni e degli stimoli, le impressioni, gli ostacoli, i pericoli del materico,…) e dalla leggerezza di aspirazioni, desideri, sogni, necessità, emozioni, progetti, facendo dell’uomo un animale teso tra l’immanenza e la trascendenza e sospeso in una dimensione simbolica e linguistica capace di mettere in forma il mondo. Il concetto espresso dal titolo, per quanto soggetto a molteplici interpretazioni e diverse sfumature, rimanda pertanto a quell’insieme possibile e necessario, reale e immaginario di “cose lievi” e “cose gravi” che convivono nel mondo umano e che danno forma alla dimensione antropologica individuale e collettiva. Le opere in mostra danno così vita a una narrazione figurale, in cui il lieve e il grave diventano cifra espressiva e poetica di artisti di diversa età, formazione e poetica che hanno nella loro carriera portato avanti una ricerca su forme e materiali, al fine di restituire inquietudini e aspettative dell’umano singolo e associato nella condizione socio-storica attuale e nella dimensione esistenziale generale che costringe questo animale, precario e fragile, a rapportarsi con un ambiente ostile facendolo diventare un mondo ospitale e abitabile. Lieve e grave, attributi di norma legati in modo stretto alla materia, al dato fisico, corporeo ed empirico, diventano così concetti operativi per dare forma a sculture e installazioni, che travalicano la dimensione prettamente materiale e fisica della realtà, diventando emblematiche di una condizione antropologica e ontologica dell’intersoggettività e della realtà. I due differenti aspetti della materia risultano qui, in modo astratto e ideale, equivalenti e paritetici, mostrando come il progresso e i cambiamenti socio-storici abbiano portato le arti contemporanee a esplorare linguaggi, materiali e forme che hanno superato la concezione tradizionale della scultura, storicamente associata a materiali “pesanti” e pregiati, in direzione di una metaforica “levitazione”, che attraverso l’uso delle nuove tecnologie e di materiali innovativi hanno impresso una svolta alla pratica scultorea, sancita in via definitiva dalle avanguardie storiche. Ciò permette di articolare una fisionomia della scultura caratterizzata da tratti installativi che prediligono accostamenti, accumulazioni e assemblage di materiali differenti, anche lievi, delicati e impalpabili come un soffio. La scultura ha iniziato così a cambiare forma e perdere peso in modo legittimo, mantenendo però inalterato il suo valore e la sua densità simbolica e significante; intercettando questa traiettoria diviene interessante indagarne le recenti evoluzioni, aprendo un confronto e un dialogo tra artisti e artiste di generazioni differenti. In questa prospettiva, tre scultori mid-career – Paolo Grassino, Domenico Borrelli e Carlo D’Oria – da sempre dediti a una scultura in cui massa e peso hanno giocato un ruolo di primo piano, sono qui affiancati da tre promettenti artiste emergenti – Gisella Chaudry, Sacha Turchi e Guendalina Urbani – che hanno assunto come principi cardine levità e delicatezza. In entrambi i casi, siamo di fronte a un’indagine sul senso della presenza umana nel mondo, sulla dimensione antropologica e sulle forme dell’espressione che permettono agli artisti di indagare l’inquietante, fragile e precaria condizione umana (Grassino e D’Oria), la dimensione strutturale della realtà e della corporeità (Borrelli, Grassino e D’Oria), le forme della realtà nel loro divenire e nella loro emersione simbolica (Chaudry, Grassino, D’Oria) e l’indagine sul movimento, la leggerezza dei materiali e la densa potenza simbolica del linguaggio e dei segni (Chaudry, Turchi, Urbani), che danno forma al nostro mondo condiviso. Tutti gli artisti presenti in mostra hanno sperimentato nella loro pratica e nella loro carriera materiali e tecniche differenti per rispondere alla sfida di rendere, con i linguaggi del contemporaneo, sensata e significativa la presenza dell’azione umana, sia nei suoi elementi strutturali ed esistenziali, sia nei sui elementi socio-storici, culturali e intersoggettivi. Questa mostra vuole essere la presentazione di una selezione di opere e temi che caratterizzano la poetica dei sei artisti, nei loro recenti sviluppi, dando forma a una complessa narrazione figurale che racconta quello spazio indefinito tra “cose leggere” e “cose pesanti” che danno vita allo spazio esistenziale dell’uomo, indagandone strutture, forme ed evoluzioni