Gallery
Fondata nel 1999 a Torino, sin dagli inizi la galleria si contraddistingue per i coraggiosi e significativi progetti espositivi, che attraversano tutti i linguaggi artistici, mantenendo un’attenzione particolare alle pratiche concettuali e alla radicalità della ricerca. Nel corso degli anni, il programma ha mantenuto una costante evoluzione e crescita, accompagnata dalla migrazione in otto differenti spazi in città: una risposta a differenti esigenze architettoniche e progettuali, che ha lasciato gli artisti liberi di creare nuovi progetti in luoghi diversi.
Dal 2013, il centro delle attività è l’area di via Mottalciata 10, nella zona nord di Torino: spazio duttile, completato nel settembre 2020 da un’area open air di mille metri quadri a pochi passi dall’ambiente principale. Accanto all’organizzazione delle mostre nei propri spazi e alla partecipazione alle principali fiere internazionali, la galleria collabora con le più importanti istituzioni italiane e internazionali e con la città stessa, promuovendo la pubblicazione di libri, sostenendo e contribuendo alla produzione di opere e progetti dei propri artisti.
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Founded in Turin in 1999, the gallery distinguished itself from the very start for its courageous and significant exhibition projects crossing all artistic languages, while maintaining a particular attention to conceptual practices and to the radicality of research. Over the years, its program has maintained a constant evolution and growth, accompanied by the migration to eight different spaces in the city: a response to different architectural and planning needs, which has left artists free to create new projects in different places.
Since 2013, its center of activity has been the area around Via Mottalciata 10, in the northern part of Turin: a ductile space, completed in September 2020 with an open-air area covering one thousand square meters located just a short distance from the main premises. Alongside the organization of exhibitions in its own spaces and participation in major international fairs, the gallery collaborates with the most important Italian and international institutions as well as with the city itself, promoting the publication of books and supporting and contributing to the production of works and projects by its artists.
Exhibits
16.05.2023 - 30.09.2023
opening: 15.05.2023
16.05.2023 - 30.09.2023
Coins and Coffins Under My Bed è la sesta mostra personale di Jason Dodge con la galleria. Dodge definisce l’essenza del suo lavoro come qualcosa che va “di pari passo con quanto accade di già”. Per le sue nuove sculture l’artista utilizza vetrine e plinti di diversi Musei per accogliere nuove costellazioni di api morte, gemme e natron. Queste opere si sovrappongono ad una storia già esistente, dove prima si trovavano ceramiche di Paul Gauguin, un’opera di Louise Bourgeois di stoffa, vasi antichi, anoscritti di Carlo Mollino e sculture di Medardo Rosso, ora c’è la loro assenza. Questa mostra è al tempo stesso una collettiva e una personale, in cui la comunicazione della storia si intreccia con gli effetti collaterali dell’attività umana e con la poesia del detrito. Questa mostra si è resa possibile tramite la generosità di numerose Istituzioni:
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Torino; Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; GAM –Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino; Musei Reali di Torino – Museo di Antichità; Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, Torino; Pinacoteca Agnelli, Torino; Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen. Coins and Coffins Under My Bed è il titolo di una poesia di Diane Wakoski. Dodge è, anche, incluso nella mostra Everybody Talks about the Weather curata da Dieter Roelstraete in apertura presso la Fondazione Prada di Venezia il 19 maggio. A partire dal 12 maggio, il bookshop Paint in Black di Torino ospiterà una rassegna dei suoi libri d’artista e delle sue edizioni, curata da Luca Cerizza. Quest’estate l’artista parteciperà alla RIBOCA Riga Biennial e alla nuova installazione della National Collection presso l’Hamburger Bahnhof di Berlino.
Jason Dodge (Pennsylvania, 1969) vive a Møn, in Danimarca. Negli ultimi venti anni Jason Dodge ha creato sculture e realizzato mostre che parlano di assenza, distanza, percezione tattile e visiva. Il suo lavoro è spesso paragonato alla poesia e, come molta poesia, richiede al lettore o allo spettatore di essere presente e di guardare dentro se stesso come veicolo di significati. Leggendo una poesia o una scultura, qualcosa di nuovo accade. Dodge dice: “non è ciò che qualcosa significa che è importante, è come qualcosa significa”. I suoi lavori non sono pensati per essere decifrati, piuttosto sono essi stessi macchine per decifrare. ll suo lavoro è stato oggetto di esposizioni personali presso Istituzioni pubbliche e private internazionali, tra le quali: MACRO – Museum of Contemporary Art, Roma, Italia (2022); Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, Italia; Schinkel Pavillon, Berlino, Germania (2017); Institut d’Art Contemporain Villeurbanne Rhône-Alpes, Villeurbanne, Francia (2016). Tra le biennali ricordiamo la partecipazione a: 9a Liverpool Biennial, Liverpool, UK (2016); 55a Biennale di Venezia, Padiglione Lituania, Venezia, Italia (2013); 12a Biennale de Lyon, Lione, Francia (2013). Le opere di Jason Dodge fanno parte, tra le altre, delle collezioni permanenti di: Solomon R. Guggenheim Museum, New York, USA; MCA – Museum of Contemporary Art Chicago, Chicago, USA; collezioni Nazionali di Francia e Germania. Dodge è il fondatore della casa editrice Fivehundred Places, che ad oggi ha pubblicato 25 libri monografici di poesie di poeti contemporanei tra cui Ishion Hutchinson, Eileen Myles, CA Conrad, Dorothea Lasky e Matthew Dickman
20.02.2023 - 06.05.2023
opening: 20.02.2023
20.02.2023 - 06.05.2023
FELT è la prima personale dell’artista americano Eric Nathaniel Mack allestita a Torino nella galleria di Via Mottalciata.
Il lavoro di Mack varia dalla scultura all’installazione, dalle opere a parete ai lavori su carta. La sua estetica prevede un particolare tipo di tattilità e di utilizzo di oggetti comuni, con particolare attenzione a quelli legati all’abbigliamento. Elementi ready-made, quali indumenti, coperte, pannelli forati, pagine di riviste e occhielli, si ricompongono e si trasformano attraverso l’uso di pittura acrilica e di tinture.
Il linguaggio visivo di Eric Nathaniel Mack parla attraverso questi materiali, così come attraverso il colore e la consistenza, la percezione e la fluidità. Le sue opere si dispiegano e si muovono, rese vive da una gamma di tonalità, da forme irregolari e da una narrazione poetica. I riferimenti all’industria della moda e alla figura conferiscono una qualità seducente, riferendosi all’identità o a una narrazione fatta di materiale desiderio e intenzione.
Eric Nathaniel Mack (1987, Columbia, MD) vive e lavora a New York.
Ha conseguito il BFA presso la Cooper Union, New York, USA, e il MFA presso la Yale University, New Haven, USA. Nel 2017, Mack è stato il vincitore del primo BALTIC Artists’ Award, selezionato dall’artista Lorna Simpson, e ha completato la Rauschenberg Residency a Captiva Island, Florida, e una residenza d’artista presso la Delfina Foundation a Londra, Regno Unito.
Tra le mostre personali istituzionali ricordiamo Lemme walk across the room, Brooklyn Museum, New York, USA (2019); In austerity, stripped from its support and worn as a sarong, The Power Station, Dallas, USA (2019); il BALTIC Artists’ Award 2017, BALTIC Centre for Contemporary Art, Gateshead, Regno Unito (2017); e Eric Mack: Vogue Fabrics, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, New York, USA (2017). Tra le sue prossime mostre Chronorama / Chronorama Redux, curata da Matthieu Humery, a Palazzo Grassi a Venezia nel marzo 2023. Tra le principali mostre collettive ricordiamo la Whitney Biennial 2019, Whitney Museum of American Art, New York, USA; Ungestalt, Kunsthalle Basel, Svizzera (2017); In the Abstract, Massachusetts Museum of Contemporary Art, North Adams, USA (2017); Blue Black, Pulitzer Arts Foundation, St. Louis, USA (2017); Making & Unmaking: An exhibition curated by Duro Olowu, Camden Arts Centre, Londra, Regno Unito (2016); e Greater New York 2015, MoMA PS1, Long Island City, New York, USA (2015). Le opere di Mack sono presenti nelle collezioni permanenti della Albright-Knox Art Gallery, dello Studio Museum di Harlem e del Whitney Museum of American Art.
ENGLISH VERSION
Galleria Franco Noero is pleased to announce FELT, the first solo exhibition of American artist Eric Nathaniel Mack to be held in Turin in the spaces of Via Mottalciata.
Mack’s work varies from sculpture and installation, to wall pieces and work on paper. His aesthetic involves a particular type of tactility and usage of common items, primarily those related to clothing. Readymade elements, such as garments, blankets, pegboards, magazine pages, and grommets, recompose and transmute via usage of mediums like acrylic paint and dye. Eric Nathaniel Mack’s visual language speaks through these materials, as well as through color and texture, optics and flux. His works flow and shift, alive with a spectrum of hues, irregular shapes, and poetic drama. References to the fashion industry and the figure impart a seductive quality, connecting to identity or a material fiction of desire and intention.
Eric Nathaniel Mack (1987, Columbia, MD) lives and works in New York.
He received his BFA from The Cooper Union, New York, USA and his MFA from Yale University, New Haven, USA In 2017, Mack was the recipient of the inaugural BALTIC Artists’ Award selected by artist Lorna Simpson and completed the Rauschenberg Residency in Captiva Island, FL and an artist-in-residency at Delfina Foundation in London, United Kingdom.
Institutional solo exhibitions include Lemme walk across the room, Brooklyn Museum, New York, USA (2019); In austerity, stripped from its support and worn as a sarong, The Power Station, Dallas, USA (2019); The BALTIC Artists’ Award 2017, BALTIC Centre for Contemporary Art, Gateshead, United Kingdom (2017); and Eric Mack: Vogue Fabrics, Albright–Knox Art Gallery, Buffalo, New York, USA (2017). Among his upcoming exhibitions, CHRONORAMA curated by Matthieu Humery at Palazzo Grassi in Venice in March 2023. Major group exhibitions include the Whitney Biennial 2019, Whitney Museum of American Art, New York, USA; Ungestalt, Kunsthalle Basel, Switzerland (2017); In the Abstract, Massachusetts Museum of Contemporary Art, North Adams, USA (2017); Blue Black, Pulitzer Arts Foundation, St. Louis, USA (2017); Making & Unmaking: An exhibition curated by Duro Olowu, Camden Arts Centre, London, United Kingdom (2016); and Greater New York 2015, MoMA PS1, Long Island City, New York, USA (2015). Mack’s work is in the permanent collections of Albright-Knox Art Gallery, The Studio Museum in Harlem and the Whitney Museum of American Art.
Installation view, Eric Nathaniel Mack, Scampolo!, The Douglas Hyde Gallery of Contemporary Art, March 4 – May 29, 2022
06.11.2022 - 11.02.2023
opening: 05.11.2022
06.11.2022 - 11.02.2023
La Galleria Franco Noero è felice di presentare la quinta mostra personale di Henrik Olesen in galleria. La pratica artisitica di Olesen è ricca di molteplici riferimenti legati alla gay subculture e alla storia dell’omosessualità. L’artista rielabora le informazioni in forma di testo, immagine e altri materiali per affrontare temi quali le relazioni di potere e le norme sociali. Le sue opere spesso si focalizzano sui concetti quali le categorie e le gerarchie con il fine di suggerirne nuove composizioni e decostruzioni. Una volta era così. Ora non lo è più. I nuovi lavori su tela e pannelli di masonite si compongono di una molteplicità di colori dalla tonalità scura, addensanti e vernici adesive. In alcune delle superfici la plasticità dei colori a olio è concertata dalla presenza di stampe incollate su carta e pellicole traslucide, da testi scritti a mano dall’artista su nastro adesivo di carta e da prese elettriche verniciate a spray.
I AM PLASTIC. THIS IS MY ORGANS. Le opere in mostra rappresentano e raffigurano il sistema digestivo umano, in una pluralità di organi come l’intestino, lo stomaco, il fegato e i reni. I motivi ricorrenti presenti nelle opere sono inspirati a L’Homme ouvert (1923) di Jean Fautrier. Due nuovi passaggi sono stati aperti nelle pareti della galleria, così da mostrarne la loro architettura interna.
Le mostre personali di Henrik Olesen includono esposizioni al Reina Sofia, Madrid, Spagna (2019), Schinkel Pavillion, Berlino, Germania (2018), Wattis Institute, San Francisco, USA (2017), Museum Ludwig/Wolfgang-Hahn-Price, Colonia, Germania (2012), Kunstmuseum Basel, Basilea, Germania (2011), MoMA – Projects 94, New York, USA (2011). Tra le mostre collettive ricordiamo: KW, Berlino, Germania (2021), Kunstverein für die Rheinlande und Westfalen, Düsseldorf, Germania (2019), Hammer Museum, Los Angeles, USA (2018) Bienal de Sao Paulo, Brasile (2018; 2016), Fondazione Prada, Milano, Italia (2016), Punta della Dogana a Venezia – Fondazione Pinault, Venezia, Italia (2015; 2016), Biennale di Venezia, Venezia, Italia (2013), New Museum, New York, USA (2012), Generali Foundation, Vienna, Austria (2012) e Pinakothek der Moderne a Monaco, Germania (2012).
(immagine)
Henrik Olesen
Stomach, intestine, kidney, liver
2022
oil on canvas, painter butter, acrylic gel medium, paper, inkjet on transparent film,
Edding 750, tape
39.8 Å~ 50 cm / 15 5/8 Å~ 19 5/8 inches
HO 22.017
Crediti fotografici: Sebastiano Pellion di Persano
23.09.2022 - 26.10.2022
opening: 22.09.2022
23.09.2022 - 26.10.2022
La Galleria Franco Noero ha il piacere di presentare la quarta personale di Robert Mapplethorpe, negli spazi di via Mottalciata e in collaborazione con The Robert Mapplethorpe Foundation. La nuova selezione di fotografie, che supera il centinaio, è un viaggio che ripercorre tutte le fasi della carriera dell’artista dai suoi esordi fino alla sua scomparsa, volontariamente ordinate in sequenze che non guardano alla cronologia, a un genere o a qualsiasi tipo di gerarchia. Le fotografie hanno infatti un’empatia che le unisce, a volte una congruenza costruttiva nelle linee compositive, altre volte si tratta di suggestioni narrative, altre ancora sono la grana, l’impasto e i toni di bianco, nero e la gamma di grigi a dettare legge. Come capitato già in altre occasioni, data la disponibilità presso la Fondazione, si riesce a ricostruire alcune sequenze di fotografie realizzate nella stessa sessione, variazioni sullo stesso tema: è particolarmente interessante in questi casi vedere come ai modelli viene chiesto di interpretare una particolare postura, ad esempio desunta dallo studio di statue antiche, oppure di esprimere l’esuberanza e l’elasticità quasi malleabile e di qualità scultorea della muscolatura di ballerini, altro ‘topos’ ricorrente nella ricerca di Mapplethorpe. Il tono romantico delle foto del primo periodo, spesso scattate in esterni nel corso del suo primo viaggio in Inghilterra e ispirate con molta probabilità da un’ammirazione per la pittura inglese e per quella sua qualità di legarsi al paesaggio, si uniscono alla fascinazione per l’arte e per la cultura italiana ed in generale europea: un bronzetto ripreso di fronte ad una riproduzione fotografica di uno scorcio romano all’interno dell’antico Foro; il corpo color ebano di un modello ritratto in una posa con grande probabilità desunta dal celebre ‘Spinario’ dei Musei Capitolini, una delle statue più note nel ‘catalogo’ del Grand Tour; uomini incappucciati come frati della migliore tradizione barocca tali a quelli di Zurbarán; un discobolo in una vetrina di gessi, un delizioso bronzetto di Spartaco incatenato, un uomo di colore seduto a terra con accanto una felce come nella pittura ottocentesca di genere esotico, una pantera di marmo di gusto Art Decó, appaiata ad un kimono giapponese, una gardenia al centro del ricamo di uno scialle ‘paisley’, insomma un’intera serie di suggestioni e citazioni di tempi disparati nella storia che ritraggono perfettamente l’atmosfera di sollecitazione culturale di una città come New York negli anni in cui Mapplethorpe l’ha vissuta. E ancora i contrasti: un’acconciatura di treccine di fronte ad un arazzo, una testa di Pan baciata da un anturium, Lisa Lyon come angelo dai boccoli biondi o con la testa coperta da un mantello come nelle rappresentazioni della Vergine Maria, le linee essenziali di un volto femminile di Matisse in un loft a New York, un meraviglioso argento con piccolo elefante di Gorham su fondo nero profondo e cosi via.
Robert Mapplethorpe (New York 1946 –Boston, MA 1989), ha studiato disegno, pittura e scultura al Pratt Institute di Brooklyn, per poi iniziare una carriera come artista e fotografo che lo ha portato ad esporre il suo lavoro in una innumerevole serie di mostre personali nelle Istituzioni di tutto il mondo, a partire dalla prima grande retrospettiva dedicatagli dal Whitney Museum of American Art di New York nel 1988, un anno prima della sua morte. Nello stesso anno Mapplethorpe ha dato vita alla Fondazione che porta il suo nome, dedicata a promuovere la fotografia, dare supporto ai Musei che la espongono, e a raccogliere fondi per la ricerca medica contro l’AIDS e contro le malattie ad esso correlate. Il lavoro dell’artista è presente nelle collezioni dei maggiori Musei internazionali e la sua importanza storica e sociale continua ad essere oggetto di rilevanti mostre personali nel mondo.
Robert Mapplethorpe, Lisa Lyon, 1981
©️ Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.
02.11.2021 - 18.05.2022
opening: 06.11.2021
02.11.2021 - 18.05.2022
La Galleria Franco Noero è felice di presentare a Torino la seconda mostra personale di Lothar Baumgarten (1944–2018).
Si tratta di un progetto ideato dall’artista già prima della sua prematura scomparsa, una scelta di opere che coprono l’intero arco e le varie fasi della sua carriera in modo da rivelare la continuità del suo pensiero rispetto alle istanze visive e concettuali che lo hanno interessato per tutta la vita. I suggerimenti e le intuizioni del primo periodo del suo percorso artistico prendono corpo e si esplicitano mescolandosi alla sua esperienza personale, con il desiderio di confronto con una realtà lontana da noi nel tempo e nello spazio che si concretizza nel periodo in cui vive con la popolazione degli Yãnomãmi nella parte alta e più remota dell’Orinoco, al confine tra Brasile e Venezuela, nella seconda metà degli anni ’70.
Tre importanti sculture dominano i volumi degli spazi concatenati che compongono la Galleria: Caimán, Nariz Blanca(1989-2010), [Arché]_(Ark) (1969-2016), e Ascheregen (2017), alle pareti invece una scelta puntuale di opere fotografiche e dipinti murali sono in relazione empatica e atemporale con le opere scultoree.
L’intero lavoro di Baumgarten agisce a diversi livelli e si esprime con mezzi disparati, generandosi dal modo con il quale l’artista ha inizialmente cominciato ad osservare e misurarsi con il mondo che ci circonda, con la natura e lo spazio e i cambiamenti che in essa si operavano man mano, cioè tramite la lente della macchina fotografica, e anche tramite l’obiettivo della macchina da presa, dando corpo ad immagini che sono sia la registrazione della realtà circostante e dei colori che essa assume -includendo in questo anche il bianco e nero e la gamma di grigi della realtà restituita dalla foto- sia quella immaginata dall’artista con allusioni che hanno un sapore esotico e che rimandano ad un altrove. Il mondo che ci circonda e che Baumgarten osserva è anche quello degli umani e degli animali, tramite l’evocazione di un universo selvaggio e primitivo, agli albori del mito, in una commistione che unisce lo spirito dell’esploratore a quello dell’antropologo e dell’etnologo, la lingua e i caratteri alfabetici che la esprimono e che rappresentano la nostra conoscenza che si contrappongono e sovrappongono ad uno spirito primordiale che si trova al suo opposto perché quella lingua non la conosce. Si attua spesso un processo che è simile a quello della ricerca etimologica, partendo dalla parola fino a scavarne la sua origine.
I River Pieces realizzati a parete sono testimonianza dei livelli di sovrapposizione: le parole dipinte a muro evocano terre lontane, fanno immaginare dei luoghi distanti anche per via dell’impasto sonoro delle parole una volta pronunciate: sono nomi di fiumi difficilmente rintracciabili sulle mappe comuni, tanto quanto le popolazioni che li abitano il cui nome a volte coincide con essi, lettere del nostro alfabeto con la forma dei nostri caratteri di stampa colorate dai toni del piumaggio degli uccelli che volano in quegli stessi luoghi, il cui nome scientifico espresso in latino da il titolo all’opera.
Le lunghe piume colorate di rosso e di blu della coda del pappagallo Ara Macao ricoprono il tetto della struttura archetipica di una grande casa, o simbolicamente un’arca, dall’ossatura di legno, la quale poggia su dei rami che alludono alle onde di un fiume la cui massa liquida e opaca si condensa in due lastre di ceramica nera vagamente iridescente adagiate a terra: si tratta di [Arché]_(Ark), un’opera concepita alla fine degli anni ’60 quando Baumgarten già accarezzava il sogno di un viaggio al di là dell’Oceano presso i nativi dell’Amazzonia e terminata poi nel 2016, ad anni di distanza dal tempo passato con gli Yãnomãmi.
I suoni registrati nella foresta insieme alle voci degli Yãnomãmi si fanno sorprendentemente vicini e risuonano all’interno della SAAB 900 che l’artista ha usato per un lungo periodo della sua vita. L’opera domina lo spazio centrale della Galleria, in dialogo con un River Piece i cui toni del verde e del nero riprendono quelli della foglia di banano adagiata all’interno di un’auto Volkswagen, in una fotografia appesa sulla parete adiacente che si chiama VW do Brasil, in cui convivono nuovamente lo spirito di una natura esuberante e lussureggiante e l’eleganza precisa della meccanica e dei materiali dell’automobile, diametralmente opposta.
Un testo scritto dall’artista accompagna Caimán, Nariz Blanca (Caimano, Narice Bianca), del quale segue un estratto:
“Una SAAB bianca modello 900 del 1989 è stata trasformata in un’opera sonora, intitolata ‘Caimán, Nariz Blanca’ in riferimento al suo aspetto morfologico.
Funziona contemporaneamente come luogo, come posizione, come capsula del tempo e come eccezionale esperienza sonora della durata di 35 ore.
Fornisce uno spazio intimo per la contemplazione del tempo e della distanza quando la volta acustica dell’auto si riempie dei suoni della lingua nativa parlata dal popolo degli Yãnomãmi. È un lavoro sullo spazio e sul tempo, sulla consapevolezza dell’esistenza di lingue morenti ed estinte, una riflessione sulla diversità linguistica e una critica culturale riguardo all’agonia e alla rassegnazione. È una dichiarazione della società degli Yãnomãmi e della poetica della loro “letteratura non scritta”.
Durante gli anni 1978, 1979 e 1980, ho vissuto 18 mesi con il popolo Yãnomãmi nelle profonde foreste pluviali della regione dell’Orinoco superiore, tra le montagne Parima a cavallo tra Venezuela e Brasile. Restaurata accuratamente e con la sola modifica data dall’inserimento di un sistema audio surround, l’auto ha potuto fornire uno spazio acustico ermeticamente sigillato, perfetto per ascoltare le registrazioni da me effettuate sul campo in vari insediamenti negli anni 1978, 1979 e 1980.
Il contenuto dell’opera non si esaurisce soltanto nella sua grammatica formale e nelle sue caratteristiche fisiche, si sostanzia piuttosto nel dialogo e nello scambio umano che l’opera permette di attuare. La profondità dell’esperienza, condivisa per diciotto mesi senza alcun contatto con il mondo esterno, è presente in queste registrazioni. La mia presenza fisica è costante e palese in tutte le registrazioni, ma non esiste una mia presenza fonetica in alcuna di esse. La ‘SAAB’ è un sostituto della mia silenziosa presenza fisica al momento delle registrazioni, allo stesso tempo rappresenta la mia assenza durante la sua presentazione”. (LB)
Ascheregen (Pioggia di Cenere) è l’opera realizzata da Lothar Baumgarten in occasione della sua ultima partecipazione ad una mostra istituzionale: intitolata Prometheus Unbound essa ha avuto luogo nel 2017 presso la Neue Galerie a Graz, a cura di Luigi Fassi. Il testo scritto da Fassi per il catalogo che ha accompagnato la mostra si riferisce all’interpretazione data da Baumgarten al mito di Prometeo, tramite una serie di interventi che spaziano a più livelli, di cui l’opera presentata in mostra – un ampio tavolo vetrina come quelli da museo le cui gambe poggiano in maniera apparentemente precaria su pile di piatti di terracotta bianca – è l’oggetto dalle caratteristiche più radicate e meno effimere.
Il confronto con il pensiero mitico e la dimensione interrogativa del mito di Prometeo sono evidenziati da Lothar Baumgarten, che si interroga anche sul significato del prometeismo e sul suo perdurante potenziale enigmatico nel tempo. Baumgarten, il cui lavoro si è sempre basato su un’intensa riflessione sulla natura e sulla sua problematica categorizzazione attraverso le forme antropiche della cultura e della scienza, in una serie di nuovi lavori ha operato una riflessione su alcuni aspetti essenziali del mito. Chi è Prometeo? Come abbiamo visto, l’antico Titano è un’entità cosmologica ancestrale che precede gli dei olimpici; è una potenza primordiale (temporaneamente) costretta a farsi strappare il fegato da un’aquila, destinato poi a rigenerarsi ogni notte in un ciclo senza fine. Baumgarten rappresenta gli eventi mitologici mettendoli a nudo nella loro materialità cruda e ardente. Nel corpo di lavoro presentato in mostra, intitolato ‘Ascheregen’, elementi sparsi sono riuniti: i nomi dei Titani appaiono dipinti su piume di aquile; e ceneri e pietre di carbone sono poste una accanto all’altra in un’enigmatica evocazione di Prometeo attraverso elementi biologici e forme naturali. Il carbone come elemento minerale riappare in altre sculture, segnalando indirettamente la latenza del fuoco come elemento primario; un segnale di intelligenza e forza, ma anche di paura e distruzione.
Il laconismo del testo di Kafka è un riferimento chiave che attraversa il dialogo di Baumgarten e Stockhausen con il mito di Prometeo. Il mito non può essere ermeneuticamente forzato in un’unica interpretazione e, per la sua stessa struttura, richiede una continua rilettura, un processo che porta in primo piano la sua dialettica di progresso e stasi, di sviluppo e fallimento. Se il mito insegna sia la permanenza del possesso umano della cultura che l’irreversibilità del suo sviluppo nonostante l’opposizione della volontà di Zeus, Baumgarten esplora tale affermazione, sottolineando la possibilità -trasmessa dal mito- di resistenza attraverso l’auto-coltivazione.
In questo modo, elementi della cultura del lavoro e dell’impegno civile sottolineano le manifestazioni di una possibile Bildung che Baumgarten lascia emergere nelle sue opere su Prometeo. Pietre, ceneri, pigmenti, piume, ma anche riferimenti letterari, convergono a comporre un corpo di ricerca volto a cogliere il pensiero mitico attraverso la natura nascosta delle cose. Questo viene fatto esplorando il loro aspetto enigmatico, la storia contenuta nella loro materialità effimera, così come la loro consistenza organica e la loro seducente ambiguità.
Luigi Fassi, Prometheus Unbound, 2017, Mousse Publishing, a cura di Luigi Fassi e steirischer herbst – pagg. 181-182
Shapono è un disegno a carboncino realizzato a parete che mostra schematicamente la distribuzione dei nuclei familiari al di sotto del tetto ricoperto di foglie di palma, di forma circolare e aperto al centro, in cui gli Yãnomãmi vivevano attorno a singoli focolari. E’ un disegno tracciato dall’artista originariamente a matita su di un piatto di ceramica bianca la cui superficie aveva in parte ricoperto di biacca bianca e posto all’interno di una vetrina in cui ve ne sono altri che fungono da mappa fluviale delle zone limitrofe allo shapono. La funziona primaria del mangiare e la convivialità che il piatto immediatamente ci suggerisce, insieme alla sua forma, coincidono sorprendentemente con la forma del luogo in cui si consumano invece le abitudini abitative e la struttura e organizzazione sociale del popolo Yãnomãmi.
Una eccezionale documentazione etnografica, preziosa ed emozionante, riguardo alla costruzione del tetto dello shapono con foglie di palma e insieme ad altri riti e consuetudini, è costituita dai 6 films girati da Baumgarten in bianco e nero e a colori nel corso del tempo che ha speso con gli Yãnomãmi, proiettati uno di seguito all’altro nello spazio riservato ai progetti speciali della galleria al piano inferiore.
20.07.2021 - 23.10.2021
opening: 20.07.2021
20.07.2021 - 23.10.2021
Gabriel Kuri
Threshold into Deficit (the void after Fontana)
20 Luglio – 23 Ottobre 2021
Via Mottalciata 10/b – Torino
Threshold into Deficit (the void after Fontana) è una mostra di nuove opere a parete e sculture da terra. Si tratta di un progetto atipico rispetto al mio modo di lavorare, dato che di solito non cito apertamente né rendo esplicito omaggio ad altri artisti. In questo caso ho sentito che valeva la pena di correre il rischio. La parola “Deficit” nel titolo allude sia al debito come si intende nello scambio o nel commercio – un tipo di pensiero da sempre inerente al mio lavoro- sia al mio debito professionale o poetico verso l’opera di Fontana. L’uso della parola “After” (Dopo) inclusa nel titolo ha anch’essa un doppio significato. ‘Dopo’ quale riferimento e allusione al fatto che l’arte senza dubbio abiti correntemente un universo prevalentemente post-ideologico, mentre allo stesso tempo si vive in un mondo sempre meno dipendente da nozioni metafisiche, un’era in qualche modo ‘dopo’ la metafisica. L’idea del vuoto nel XXI secolo può essersi allontanata da quella della metà del XX secolo. Lo stesso Fontana ha dichiarato che l’idea del vuoto ai suoi tempi era già stata sostituita da una formula matematica. Anche se la concezione radicale dello spazio di Fontana (che ha spinto verso il 1949) si potrebbe dire precedente ad alcuni dei salti tentati nel periodo dell’arte concettuale (della fine degli anni 60 e dell’inizio degli anni 70), Fontana non ha mai evitato la forma, ha sempre espresso le sue idee ambiziose con implacabile fiducia nella forma, nella materia e nel gesto. Anche questa mostra si fonda su forma, materia e gesto. Attraverso questi riferimenti insisto sull’allusione tra spazio positivo e negativo, così come sull’occupazione del volume interstiziale. In questa mostra mi chiedo se il luogo della poetica, quell’altrove a cui si aspira nella creazione di un’opera d’arte, possa essere in realtà un altrove che è mondano e concreto. Il vuoto al di là della soglia può anche essere un vuoto che può essere concepito in termini che possono essere effettivamente contabilizzati, come nel mondo del credito e del debito, la cui definizione si basa sul fatto che c’è simmetria su entrambi i lati dello zero. Quell’entità intangibile dall’altra parte del concreto – quella che può essere visibilmente contabilizzata – non è forse meno visibile e altrettanto tangibile. Il tentativo di dialogare con Fontana nel terreno conciso della prosa e della funzione può essere visto più chiaramente nell’uso di supporti che non sono convenzionalmente delle belle arti. Si tratta di vetrine a muro disponibili in commercio (normalmente impiegate per cambiare messaggi pratici di indirizzo pubblico), di targhe in acciaio inossidabile -più comunemente presenti nelle attrezzature tecniche- o di una cassa di legno di norma usata per il trasporto di opere d’arte. Oltre a questi lavori ci sono due sculture in cemento e plexiglass e un volume semicubico ricoperto di materiale idrorepellente nero. Alcune delle particelle che popolano queste opere includono mozziconi di sigaretta spenti, monete, gusci d’uovo, interruttori e spine.
Gabriel Kuri, Luglio 2021
Henrik Håkansson
20 Luglio – 23 Ottobre 2021
Open space Via Pollone – Torino
03.03.2021 - 26.06.2021
opening: 02.03.2021
03.03.2021 - 26.06.2021
l’acqua è parte di una serie di mostre sul tema dell’acqua che si tengono in gallerie internazionali quale progetto comune, chiamato Galleries Curate: RHE.
Galleries Curate è un gruppo informale di gallerie d’arte contemporanea provenienti da tutto il mondo formatosi in seguito alla crisi globale della pandemia COVID-19. La coalizione si concentra sulla creazione di un senso di comunità e di interazioni cooperative attraverso mostre collaborative progettate per esprimere un dialogo dinamico tra i nostri programmi individuali.
RHE è il primo capitolo di questa collaborazione, una mostra e un sito web incentrati su un tema universale e, speriamo, unificante: l’acqua. Come la cultura, l’acqua non è mai statica ma sempre in movimento.
Si ringraziano la Galleria Tucci Russo, Torre Pellice/Torino e Rodeo Gallery, Atene/Londra per la gentile collaborazione.
Via Mottalciata 10/B e Corso San Maurizio angolo Via Giulia di Barolo (Casa Scaccabarozzi – piano terra / visibile dall’esterno)
Orari di apertura:
Lun, Sab 15:00 / 19:00
Mar – Ven 11:00 / 19:00
La prenotazione via email o telefonica è caldamente consigliata ma non obbligatoria. Un’area di attesa all’aperto è disponibile fuori dalla galleria, la cui capacità massima di accoglienza è di 15 visitatori alla volta in ottemperanza alle linee guida predisposte dal Governo Italiano. È obbligatorio l’uso della mascherina e il rispetto del distanziamento sociale.
22.09.2020 - 09.01.2021
opening: 10.12.2020
22.09.2020 - 09.01.2021
La Galleria Franco Noero di via Mottalciata 10/B, 10154 I-Torino (Tel +39 011882208) è felice di presentare Tongues in Trees, Books in Brooks, Sermons in Stones dell’artista Sam Falls.
Una nuova serie di lavori trovano la loro espressione nell’utilizzo di tecniche che simultaneamente diventano cifra distintiva dell’opera dell’artista e la completano aggiungendo un certo grado di imprevedibilità: dai quadri realizzati en plein air con pigmenti secchi che si sciolgono sulla tela per opera di agenti atmosferici come pioggia e umidità, alla costa di stoffa di copertine di libri sbiadite dalla luce del sole, piatte ‘spine dorsali’ assemblate a parete in gamme di colori in progressione o in netto contrasto; dalle fotografiche stampate su tela, nelle quali all’istantaneo fermo immagine del reale si sovrappone il dinamismo guizzante di un ordito astratto, un impasto di fotogrammi mescolati a pennellate all over di brillanti colori ad olio, alle ceramiche smaltate che portano impresse sulla loro superficie le tracce colorate di fiori e di piante incastonate negli incavi di travi di ferro a doppio T.
Ad accompagnare la mostra un testo appositamente scritto dall’artista, l’introduzione sicuramente più appropriata per essa, poetica e ispirata.
Lo scheletro della nostra gabbia toracica e le vene di una foglia sono insieme struttura di sostegno e fonte di salute. Un bel dipinto può rispecchiare la fissità quieta e la bellezza di una pianta; la pianta, se presa a soggetto, narra di un luogo e può ispirare il processo con il quale si crea arte. Le forme di un corpo possono raccontare molte storie e la relazione tra due corpi all’interno di un unico piano può delineare i termini di un racconto. Dopo aver trascorso innumerevoli ore a osservare intensamente la natura, a toccare le piante, a scomporre le varie dimensioni del paesaggio per poterle contenere in una sola, sono riuscito a cogliere l’essenza di una pianta, a capire qualcosa di più riguardo all’immobilità e alla vita, alla creazione e alla morte. A volte, dopo aver campeggiato e lavorato all’aperto per diverse notti nei boschi dove fa freddo, dopo aver mangiato tutto il cibo che avevo ed essermi rimasta solo dell’acqua ma ancora molte ore di lavoro per finire un dipinto, sento le mie ossa irrigidite e fiaccate mentre la mia mente come xilema e floèma trasmette pensieri cristallini e strutturati, incorrotti dal mondo circostante. A volte è difficile immaginare cos’altro potrebbe essere necessario se non i nostri corpi e le piante agli estremi come fermalibri e lo spazio della natura nel mezzo. Le nostre spine dorsali sorreggono l’infinito e il momentaneo, come la costa di un libro o lo stelo di un fiore -la nostra spina dorsale contiene in sé il sistema nervoso centrale come anche la coscienza dei racconti che abbiamo letto- del tempo e dello spazio. I nostri corpi crescono riassestandosi continuamente, invecchiano e danno vita, ma muoiono? Le parole custodite nelle pagine di un libro chiuso sono vittime dell’era della meccanica quantistica e, come ogni sistema quantistico, fluttuano fino a quando non gli si presta attenzione. Le parole, come le cellule nei nostri corpi, creano significanze, traducono il tempo in idee e con il passare del tempo queste idee cambiano. La copertina di un libro può esprimere il tempo, comunicare idee che estendono la loro durata nei secoli. Come in un albero, c’è una bellezza innata, semplice e misteriosa nella copertina consunta di un libro non letto, qualcosa di sincero ed eterno, come le parole nascoste al suo interno.
Sam Falls, Febbraio 2020
Galleria Franco Noero
Sam Falls (San Diego, 1984) vive e lavora a Los Angeles. Il suo lavoro è stato oggetto di esposizioni personali in istituzioni pubbliche e private internazionali, tra le quali: Laumeier Sculpture Park, St. Louis, USA (2019); CAPRI Dusseldorf, Germania (2019); Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Trento, Italia (2018); Hammer Museum, Los Angeles, USA (2018); The Kitchen, New York, USA (2015); Ballroom Marfa, Marfa, USA (2015); Fondazione Giuliani, Roma, Italia (2015); Zabludowicz Collection, Londra, Regno Unito (2014); Public Art Fund, Brooklyn, New York, USA (2014); Pomona College Museum of Art, Pomona, USA (2014); LA><ART, Los Angeles, USA (2013). Ha partecipato a numerose mostre collettive in istituzionali internazionali, tra le quali: High Line, New York, USA (2019); Frankfurter Kunstverein, Francoforte, Germania (2018); Aspen Art Museum, Aspen, USA (2018); CMOA – Columbus Museum of Art, Columbus, USA (2017); Kunsthalle Helsinki, Helsinki, Finlandia (2016); Wasteland, Mona Bismarck American Center, Parigi, Francia (2016); Mead Gallery, University of Warwick (2016) e Fruitmarket Gallery, Edinburgo, Regno Unito (2015); UB Art Gallery, University at Buffalo, New York, USA (2015); Hammer Museum, Los Angeles, USA (2015); Museo MADRE, Napoli, Italia (2014). Tra le biennali e le mostre collettive internazionali ricordiamo la partecipazione a: 21esima Biennale di Sydney, Sydney, Australia (2018); ICP Triennial, International Center of Photography, New York, USA (2013).
16.06.2020 - 18.06.2020
opening: 16.06.2020
16.06.2020 - 18.06.2020
Sede espositiva di Via Mottalciata 10b – Torino
La prima mostra personale in Italia dell’artista brasiliano Marepe raccoglie un’ampia serie di opere che coprono un arco temporale della carriera dell’artista e della sua ricerca espressiva degli ultimi quindici anni, lavori che toccano alcuni dei temi a lui più cari, fino alla sua ricerca più recente. La mostra si trova perciò in perfetta sintonia con la grande retrospettiva dello scorso anno dedicata all’artista dalla Pinacoteca di San Paolo del Brasile, intitolata Estranhamente comum (Oddly Common), o in italiano Stranamente Comune.
La pratica artistica di Marepe è saldamente legata alle sue origini e agli eventi che hanno caratterizzato la quotidianità della sua vita. Vivendo e lavorando nella città di Santo Antônio de Jesus nel Nord del Brasile, la poetica di Marepe è permeata da una ricca mescolanza di tematiche che fanno chiaro riferimento ai tratti tipici del territorio da cui proviene, la regione di Bahia, alla manifattura e ai commerci del luogo, alle tradizioni popolari del Recôncavo Baiano, nonché ai ricordi personali, familiari e d’infanzia, probabilmente alle numerose ore spese nella ferramenta di proprietà del padre o al tempo passato ad osservare l’ingegnosità dei venditori ambulanti di Bahia.
Un elemento fondante e ricorrente nelle opere di Marepe è legato all’appropriazione di oggetti d’uso quotidiano, quelli che appunto sono disponibili nei mercati o nei negozi che vendono cose utili e funzionali, che sistematicamente vengono decontestualizzati, reinventati e assemblati in composizioni che esprimono associazioni del tutto personali e inaspettate, in modo da ridefinire così la loro natura, forma e significato. Sebbene influenzato dalla corrente Dadaista, per Marepe l’utilizzo del ready-made è radicato in ben altre necessità. Di fatto l’artista fa riferimento alle proprie composizioni scultoree definendo gli oggetti che li compongono come necessidades(necessità) piuttosto che ready-mades, cogliendo e sfruttando le caratteristiche che individuano la forte rilevanza sociale ed economica che essi rappresentano per il territorio rurale Brasiliano e, in particolare, per la regione di Bahia. La memoria, le forme, la peculiare semplicità e spontaneità dei materiali e le composizioni cromatiche sono quindi la struttura di base su cui l’artista fa affidamento per concepire le proprie opere. In questo modo Marepe incoraggia una modalità di osservazione e di studio di oggetti a noi familiari che mettono a nudo qualità che di norma sarebbero nascoste o inosservate ai più.
Ed è cosi che i Radiador, semplici radiatori per il funzionamento dei condizionatori, diventano tele nude su cui abbozzare paesaggi, animali e figure riconducibili alla sua infanzia; come in Os très, una grande tela dipinta con colori acrilici che raffigura una scena familiare in cui un ragazzo vestito di tutto punto dai colori accessi, presumibilmente l’artista, è intento a giocare con una piccola automobile in legno. L’aspetto ludico e spensierato dei radiatori è presente anche in Simulador de caminhada, in cui strumenti di norma utilizzati per l’esercizio fisico sono adornati da sfere di vimini, cristalli, bustini e setole di scopa quasi a sfiorare il soffitto, e in Aquecimento Corporal da Seleçåo de Santo Antonio de Jesus, unico video in mostra, in cui una squadra di calcio brasiliana, nell’intento di riscaldarsi per l’inizio di una partita, trasmette un senso di spontaneità e allegria attraverso il canto coreografato degli atleti.
In Abrigo, letteralmente ‘rifugio’ in portoghese, una rete a doghe in legno fa da base per una costruzione precaria composta da cuscini per sdraio, una sovra copertura per tetti in eternit, una coperta foderata di alluminio e quattro brocche in argilla coronate da cappelli di paglia comunemente usati nelle regioni del Tropico per proteggersi dal torrido sole. La struttura, se pur a prima vista piacevole, è un diretto riferimento dell’artista allo stato di crisi dei migliaia di senzatetto nelle principali metropoli Brasiliane.
In Carro de Bandeirolas un’automobile giocattolo in legno replica le dimensioni di una vettura reale. La tradizionale carrozzeria in acciaio è in questo caso sostituita da una moltitudine di bandierine colorate in alluminio raffiguranti la moneta nazionale del Brasile, il real. Il legno è anche l’elemento principale di As Cabras -opera composta da due sculture dai tratti elementari come quelli di un disegno di un bambino- raffiguranti due capre chiaramente sproporzionate rispetto alla loro reale stazza. Le due sculture sono contemporaneamente un riferimento preciso e un’esaltazione dell’importanza sociale ed economica che questa specie ricopre nel nord-est del Brasile e un’allusione alla produzione artigianale e in numero esiguo degli arredamenti modernisti in Brasile tra gli anni ’50 e gli anni ’70.
Concha Acústica è l’installazione posta nello spazio centrale della galleria ed è costituita da otto elementi che appaiono come delle casse acustiche o custodie di strumenti composti con elementi improvvisati, grandi catini di plastica accoppiati e poggiati su sgabelli in legno sistemati a cerchio, un’allusione forse ad un’orchestra da camera o ad una banda. I colori, le forme e la composizione richiamano uno dei luoghi più evocativi e storici della città di Salvador di Bahia, la famosa Concha Acústica del Teatro Castro Alves, centro culturale con più di 50 anni di attività e molto caro all’artista. Concha Acústica riporta anche ad uno dei lavori più emblematici di Marepe, Cabeça Acústica (1996), una vera e propria ‘testa acustica’ composta da due elementi concavi in metallo zincato che fungono da involucro e una fessura in cui lo spettatore è invitato a inserire la testa. L’osservatore, inserendo la testa all’interno dello strumento, attiva l’oggetto performativo isolandosi da tutti i suoni esterni e divenendo così tutt’uno con l’opera d’arte stessa.
Un testo dell’artista accompagna la sua mostra:
La mostra unisce opere recenti e inedite ad alcune del passato, tutte riflettono la durezza di alcuni momenti del mio percorso, ma sono sempre permeate allo stesso tempo da un senso di fede. Questa è la parola che spiega meglio la mia insistenza nel procedere. Il cantante brasiliano Gilberto Gil ha scritto: “La fede segue anche quelli che non ne hanno, in ogni caso” (Mesmo a quem não tem fé, a fé costuma acompanhar, pelo sim, pelo não). In tempi di estrema incertezza, in cui valori distorti alterano e mettono a rischio la stabilità di diritti acquisiti, la fede è l’unico motivo ricorrente per dare senso alla vita. Mai prima d’ora ho visto così tante persone camminare per le strade con la parola fede stampata sulle loro magliette. La mostre include le opere ‘Simulador de caminhada’,‘As Cabras’, ’Abrigo’, ’Arquipélago’, ‘Radiadores’, ’Como dois e dois são cinco’, ’Concha acústica’, ’Verde e Amarelo’, ’Carro de bandeirolas’, ‘Pinaùna’, ‘Aquecimento Corporal da Seleção de Santo Antonio de Jesus’, Desenhador I, eOs Três, unico dipinto in mostra. Mentre in Brasile si vive la stagione estiva, in Italia è pieno inverno. Due emisferi opposti dunque, motivo per cui la mostra è intitolata Entre o céu e o inverno (Between Heaven and Winter). Attraverso questo titolo ho voluto esprime la volontà di ricordare ai visitatori che il mio luogo d’origine sono i Tropici, come nel titolo del documentario prodotto da Elisa Gomes dedicato all’artista brasiliana Maria Martins: ‘Maria, Não Esqueça que Eu Venho dos Trópicos’ (Maria, Non dimenticare che vengo dai Tropici). Maria Martins è stata uno dei grandi amori di Marchel Duchamp che non potevo mancare di menzionare, poiché ideatore del ready-made artistico. Questa mostra mi ricorda costantemente il film di Fellini Le notti di Cabiria, quando l’attrice Giulietta Masina esclama: ‘che lumi strani’. Forse questa mostra ha la stessa luce.
Marepe, Dicembre 2019
Marepe (Santo Antônio de Jesus, 1970) vive e lavora a Santo Antônio de Jesus, Brasile. ll suo lavoro è stato oggetto di esposizioni personali presso istituzioni pubbliche e private internazionali, tra le quali: Estação Pinacoteca, San Paolo, Brasile (2019); Tate Modern, Londra, Regno Unito (2007); Centre Pompidou, Parigi, Francia (2005); Museu de Arte da Pampulha, Belo Horizonte, Brasile (2005). Ha partecipato a numerose mostre collettive in istituzionali internazionali, tra le quali: Sesc Belenzinho, San Paolo, Brasile (2019); ‘MASP, San Paolo, Brasile (2018); Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo, San Paolo, Brasile (2017); Seattle Art Museum, Seattle, USA (2017); Today Art Museum, Beijing, Cina (2016); MAM São Paulo, San Paolo, Brasile (2014); Walker Art Center, Minneapolis, USA (2012); Itaú Cultural, San Paolo, Brasile (2011); Hiroshima City Museum of Contemporary Art, Hiroshima, Giappone (2009); MoMA PS1, New York, USA (2008); Museu de Arte Moderna de São Paulo, San Paolo, Brasile (2007); ICA – Institute of Contemporary Arts, Londra, Regno Unito (2006); Museum of Contemporary Art, Chicago, USA (2005); Contemporary Arts Museum, Houston, USA (2004). Tra biennali e le mostre collettive internazionali ricordiamo la partecipazione a: TRIO Bienal – Rio Three-Dimensional Biennial, Rio de Janeiro, Brasile (2015); 50a Biennale di Venezia, Venezia, Italia (2003); 25a Biennale di San Paolo, San Paolo, Brasile (2002); 26a Biennale di Pontevedra, Centro de Arte Reina Sofia, Madrid, Spagna (2000); Guarene Arte 99, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, Italia (1999); Biennale di Gravura, Curitiba, Brasile (1998); Biennale di Recôncavo, Centro Cultural Dannemann, São Felix, Brasile (1995; 1993; 1991).
29.10.2019 - 15.02.2020
opening: 29.10.2019
29.10.2019 - 15.02.2020
La Galleria Franco Noero annuncia la terza mostra personale di Phillip Lai a Torino, per la prima volta negli spazi di via Mottalciata. Per la mostra sono state realizzate una serie di nuove opere che sviluppano ulteriormente l’interesse di Lai per un tipo di rappresentazione che attinge dal reale, descrivendone purtuttavia un distaccamento che trasmette e interroga una visione sublimata e rarefatta della realtà stessa.
Gli oggetti che popolano gli spazi della galleria hanno una base familiare comune ma sono soggetti a differenti gradi di astrazione e riconfigurazione. Attingendo talvolta al mondo degli oggetti comuni e dei prodotti seriali, sono per lo più realizzati “da zero” dall’artista stesso o commissionati ad artigiani. Per tali oggetti, dalla natura peritura e transitoria, la realtà materiale delle forme viene sostanzialmente investita e i lunghi processi alla base sono destinati a isolarne e circoscriverne solo particolari caratteristiche, rivelandone qualità̀ essenziali e depurandole dal superfluo.
All’interno della mostra sono presenti riferimenti a tipi di materiali e condizioni che trattano il sostenere e nutrire la vita. L’acqua, in particolare, è rappresentata nelle stazioni fittizie di rifornimento delle bottiglie proprio come il riutilizzo di taniche di plastica tipico nei paesi dell’Africa Occidentale. Nelle opere, le tracce di questi riferimenti sono tangibili ma, allo stesso tempo, vengono messe in discussione dalle loro caratteristiche visive, dalla materialità e dall’equilibrio compositivo che li contraddistingue. Il lungo calco giallo dei contenitori riporta solo la parte superiore, rendendoli privi di volume e simili ad un guscio, fragili e intensamente colorati. L’opera, sollevata e sospesa da terra. è sorretta da piccoli paletti come fosse un modello.
Proseguendo il percorso in mostra, incontriamo un grande recipiente blu riempito di chicchi di grano. Così come per l’assenza di un luogo dell’oggetto onnipresente, l’artista è interessato anche ai salti proporzionali e di scala che un materiale mutevole e granulare come questo può subire – spaziando dal singolo chicco alla montagna. La latenza di questo materiale è altresì rilevante; come scorta e, naturalmente, come riserva alimentare. Tuttavia, il grano usato dall’artista, visibilmente annerito e dall’odore acre, denota un processo di combustione messo in atto su di esso che lo ha reso inutilizzabile impedendone il consumo.
Anche in un altro lavoro si percepisce come le economie attese siano in ripresa o in condizioni confuse: l’uso del cemento all’interno di oggetti simili a bacinelle accatastate, suggerisce un’attività di costruzione mirata, eppure le sculture sembrano anche descrivere dispendiosità.
I calchi rossi traslucidi di ‘Expulsions’ hanno una vitalità colorata e mostrano la fuoriuscita residua del materiale fuso. L’imponete presenza di questo lavoro nell’ambiente, data dalla sua altezza e dall’accumulo di elementi che lo formano, trasmette nello spettatore un senso di allarme ed emergenza.
Phillip Lai (Kuala Lumpur, 1969) vive e lavora a Londra. I suoi lavori sono stati oggetto di mostre personali in Istituzioni tra cui: ‘Besides’, Camden Arts Centre, Londra, Gran Bretagna (2014); ‘Introduction and Jargon’, Transmission Gallery, Glasgow, Scozia (2009); Phillip Lai, The Showroom, Londra, Gran Bretagna (1997). Ha partecipato a mostre collettive internazionali, tra cui: The Hepworth Prize for Sculpture, The Hepworth Wakefield, Wakefield, Gran Bretagna (2018); ‘An Intervention’, John Hansard Gallery, Southampton University, Southampton, Gran Bretagna (2015); ‘Somewhat Abstract’, Nottingham Contemporary, Nottingham, Gran Bretagna (2014); ‘London Twelve’, City Gallery Prague, Praga, Repubblica Ceca (2012); ‘No Soul For Sale: A Festival of Independents’, Tate Modern, Turbine Hall, Londra, Inghilterra (2010); ‘Seven Times Two or Three’, Cubitt, Londra, Inghilterra (2008); ‘In The Poem About Love You Don’t Write The Word Love’, Overgaden, Institute for Samtidskunst, Copenhagen, Danimarca e Midway Contemporary Art, Minneapolis, USA (2007); ‘In The Poem About Love You Don’t Write The Word Love’, CCA, Glasgow, Scozia (2005); Uscita Pistoia, ‘SpazioA’, Pistoia, Italia (2004); ‘We Want Out’, CityLights Project, Melbourne, Australia (2002); ‘Cities on the Move’, Hayward Gallery, Londra, Inghilterra (1999); ‘New Video from Great Britain’, MoMA, New York, USA (1998) e Institute of Cultural Anxiety, ICA, Londra, Gran Bretagna (1995). Nel 2018 l’artista è stato nella rosa dei candidati all’Hepworth Prize per la Scultura.
Henrik Håkansson “BLINDED BY THE LIGHT”
BLINDED BY THE LIGHT è un progetto di Henrik Håkansson all’interno del piano interrato della galleria di Via Mottalciata.
La video installazione è stata presentata per la prima volta all’11a Biennale di Taipei Post-Nature — A Museum as an Ecosystem curata da Francesco Manacorda e Mali Wu, conclusasi a marzo 2019.
BLINDED BY THE LIGHT è una commissione prodotta in collaborazione con la Low Altitude Experimental Station dell’Istituto di Ricerca sulle Specie Endemiche di Taiwan a Wushinkeng.
Il sito è una delle tre stazioni sperimentali, a bassa, media e alta quota, i cui vasti programmi di conservazione cooperativa mirano a preservare tutti gli organismi endemici di Taiwan. Per tutta la durata del 2018, Håkansson ha studiato le falene della regione di Taiwan, che contano circa 4.000 differenti specie attualmente conosciute, tra cui la ‘Falena dell’Atlante’, la più grande al mondo e con un’apertura alare che può raggiunge i 30 centimetri. A Wushinkeng, l’artista ha lavorato con l’entomologo Hsu Huan Chih per attrarre questi insetti volanti, prevalentemente notturni, utilizzando una struttura appositamente prodotta e posizionata all’aperto.
Attratte dall’uso di luci a base di mercurio, le falene sono riprese su di uno sfondo bianco, come in uno spettacolo di ombre cinesi. Lo spettacolo notturno è accompagnato da un paesaggio sonoro composto da ultrasuoni emessi da pipistrelli che l’artista ha trasformato in frequenze udibili all’orecchio umano.
Henrik Håkansson (Helsingborg, 1968) vive e lavora tra Falkenberg, Svezia e Berlino, Germania. I suoi lavori sono stati esposti in mostre personali tra cui: ‘Fragmented Realities’, Konsthallen Göteborg, Göteborg, Svezia (2019); ‘A Hundred Pieces of a Tree’ Kode Art Museum – Ko-de 2, Bergen, Norvegia (2018); ‘The Beetle’, Korjaamo, IHME Conemporry Art Festival, Helsinki, Finlandia (2018); ‘A Tree (Suspended)’, Kunstverein Freiburg, Friburgo, Germania (2016); Institute Suisse, Parigi, Francia (2015); ‘A Forest Divided’, Lunds
Konsthall, Lund, Svezia (2011); ‘Henrik Håkansson’, Middlesbrough Institute of Modern Art – MIMA, Middlesbrough, Inghilterra (2009); ‘Henrik Håkansson. Novelas de la selva’, Museo Tamayo Arte Contemporáneo, Cita del Messico, Messico (2008); ‘Aug.26,2003 – Aug.27,2003 (Vespa vulgaris)’, CAG, Vancouver, Canada (2007); ‘Three days of the condor’, Kettles Yard, Cambridge, Inghilterra (2007); ‘A travers bois pour trouver la forêt’, (with Allora-Calzadilla and Sergio Vega), Palais de Tokyo, Parigi, Francia (2006); ‘Henrik Håkansson’, The Dunker Culture Centre, Helsinborg, Svezia (2004); ‘An Introduction to the birds’, De Appel, Amsterdam, Olanda e The Netherlands Moderna Museet, Stoccolma, Svezia (2003); ‘The Blackbird-Song for a New Breed’, Kunstlerhaus Bethanien, Berlino, Germania (2001); ‘Tomorrow and Tonight’, Kunsthalle Basel, Basilea, Svizzera (2001). Tra le mostre collettive internazionali e le biennali ricordiamo: 11a Biennale di Taipei, Taipei, Taiwan (2018); 19a Biennale di Sydney Sydney, Australia (2014); dOCUMENTA (13), Kassel, Germania (2012); Yokohama Triennale, Yokohama, Giappone (2011); 8a Biennale di Sharjah, Sharjah, EAU (2007); Echigo-Tsumari Art Triennial, Niigata, Giappone (2006); 8a Biennale di Lione, Lione, Francia (2005); 26a Biennale di San Paolo, San Paolo, Brasile (2004); 50a Biennale di Venezia, Venezia (2003); 47 Biennale di Venezia, Padiglione Nordico, Venezia (1997).