Gallery
Aperta nel 1989 da Alberto Peola, la galleria promuove e segue il lavoro di artisti italiani e stranieri, emergenti e già affermati, che impiegano diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura ai video alle installazioni.
Exhibits
03.11.2018 - 22.12.2018
opening: 03.11.2018
03.11.2018 - 22.12.2018
LALA MEREDITH-VULA
a cura di Monika Szewczyk
La Galleria Alberto Peola presenta la terza personale di Lala Meredith-Vula, con una selezione dei lavori della serie Haystacks (1989-ongoing) esposti a dOCUMENTA14.
«L’opportunità di scegliere alcune immagini dal ciclo Haystacks di Lala MeredithVula, iniziato nel 1989 e tuttora in corso, giunge nel momento in cui l’artista compie una sorta di bilancio della sua opera. Nel tempo, ha accumulato un vasto repertorio di fotografie, sia diapositive di celluloide che immagini in formato digitale, alcune delle quali in attesa di essere scansionate, altre mai stampate. In cantiere anche un libro, a segnare i trent’anni dall’inizio del progetto che fu determinato dall’amore per la forma concreta del pagliaio, le sue qualità scultoree e il suo rapporto con l’opera di precursori artistici come Henry Fox Talbot e, prima di lui, gli impressionisti. Il progetto fotografico fu anche un modo, per l’artista, di riannodare i rapporti con la terra d’origine.
Il progetto fotografico fu anche un modo, per l’artista, di riannodare i rapporti con la terra d’origine. Lasciata da bambina la nativa Sarajevo per Londra, Meredith-Vula tornò dal padre a Priština dopo la laurea al Goldsmith College nel 1988, reduce dalla ancora oggi famosa mostra Freeze. Accompagnata da lui, architetto kosovaro impegnato nella ricerca di strutture locali tipiche, Meredith-Vula intraprende un viaggio nelle campagne del Kosovo sviluppando un singolare interesse per i pagliai, che le diede l’opportunità di conoscere diversi aspetti della vita delle persone del luogo, segnate dalla cura della terra, ma anche da guerre, faide sanguinarie (le cui riconciliazioni sono state documentate dall’artista nel ciclo Blood feud reconciliation) e, più recentemente, dalla crisi economica. Se la selezione delle opere in mostra alla Galleria Alberto Peola non appare sistematica, o governata da un unico filo narrativo, dietro ogni pagliaio si intuisce il senso di una storia. Dopo aver indicato all’artista le opere che istintivamente avevo selezionato, ho scoperto che tre fotografie di pagliai, fatte nel 1989, 1999 e 2018, provenivano dallo stesso villaggio, Batush, che ho trovato citato in un quotidiano online del 16 aprile 1999, in un articolo che raccontava lo spargimento di sangue seguito alla secessione del Kosovo dalla Yugoslavia. Quasi tutto quello che abbiamo appreso su questa regione negli ultimi trent’anni riguarda soprattutto i conflitti etnici. Lala Meredith-Vula sceglie di fotografare forme varie e persistenti che precedono la formazione degli stati attuali.
Talvolta si ha la sensazione che i pagliai siano animati, che stiano per parlare e raccontare la loro versione degli eventi. Sarà l’effetto dell’obiettivo fotografico? Non sempre, direi. La storia della fotografia documentaristica è ricca di esempi di classificazione e oggettivazione di esistenze complesse (umane e non) rigidamente incasellate. Al contrario, il ciclo di Meredith-Vula non segue un sistema prestabilito, né tende a costruirne uno. Spesso l’artista fa addirittura a meno del treppiedi, ma ci tiene a documentare attentamente luoghi e date di ogni fotografia, altrimenti sarebbe difficile risalire a quando e dove sono state fatte. La scelta della pellicola in bianco e nero contribuisce a dare un senso di incertezza temporale, proprio nel momento in cui Meredith-Vula mostra la gestalt unica di ogni pagliaio. Perché quello che l’artista ricerca è proprio la loro individualità, personalità e vitalità come fatti storici».
Monika Szewczyk
21.09.2018 - 25.10.2018
opening: 20.09.2018
21.09.2018 - 25.10.2018
La galleria Alberto Peola presenta Nistru-Confines, la seconda personale dell’artista moldava Victoria Stoian (Chișinău – Moldavia, 1987).
Immaginate per un istante di essere lontani dalla vostra terra e dalle vostre memorie più intime. Quali e quanti colori scegliereste per dipingere l’immagine interiorizzata di quel luogo, di quel ricordo? Con quanta passionalità, delicatezza o istintualità affrontereste la tela con il pennello? Victoria Stoian li usa tutti, nelle loro mutevoli e molteplici sfumature. Tutti, raramente il nero, che per lei rappresenta la tranquillità, la notte, il silenzio, ma anche la negazione della vita. Ogni più piccola traccia di pigmento sulle sue tele sembra voler suggerire una sonorità visiva da rielaborare con gli occhi e con la mente. Una vera e propria sinfonia pittorica. Così Victoria Stoian ci descrive la sua Moldavia.
Come nei Diari paesani di Tancredi, anche lei racconta attraverso l’uso di un segno stratificato, materico, alle volte spezzato, un paesaggio astratto privo di costruzione prospettica. A dare la profondità è l’intensità con cui viene distribuito il colore. Delicate e tenui campiture di lilla e verde salvia lasciano improvvisamente spazio a un turbinio di colori e di materia. La pennellata morbida viene poco a poco modellata da una gestualità sempre più immediata e istintiva che rivela l’espressività emotiva dell’artista.
Nistru-Confines è l’inedita serie di lavori di Victoria Stoian da cui trae il titolo la mostra. Una volta ultimata comprenderà circa 400 opere pittoriche e scultoree che ripercorreranno chilometro per chilometro il lungo confine, segnato dal fiume Nistru, che separa la Moldavia dalla regione secessionista della Transnistria, autoproclamatasi indipendente nel ‘90. Stoian ci racconta quindi una storia di confine, di guerra e di abbandono. La condizione di instabilità politica e territoriale che ne è derivata e il conseguente crollo economico hanno determinato in Moldavia un graduale e costante spopolamento. Questo “esilio condizionato”, che ha coinvolto in particolare modo le zone rurali del paese, ha costretto molte famiglie a una dolorosa separazione e all’abbandono di case e terreni.
Victoria Stoian ha vissuto sulla sua pelle questo distacco. A ventun anni è riuscita a raggiungere la sua famiglia che da tempo si era stabilita a Torino. Qui ha continuato a coltivare la sua passione per l’arte, conseguendo nel 2015 la laurea specialistica in Storia dell’arte contemporanea all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che segnerà l’inizio della sua carriera artistica e professionale.
Nelle sue opere appare evidente l’eredità dell’espressionismo astratto del secolo scorso, che Victoria rinnova inserendosi a pieno titolo nel panorama artistico contemporaneo.
Negli ultimi anni si è dedicata a due cicli pittorici che rappresentano un preludio della serie Nistru-Confines, oggi parzialmente esposta in galleria. In Recea project (2014) le tele tracciano una vera e propria mappa termica delle stagioni che di mese in mese modificano il bosco di acacie che abbraccia il comune moldavo di Recea. Mentre in Codri Earthquake (2013/2017) l’artista dà vita a quella che potrebbe essere definita una mappa sismica in cui descrive secondo per secondo la sensazione di caos e di instabilità provocati dal terremoto che colpì la Moldavia nel 2011 e che danneggiò gravemente le foreste di Codri.
La ricerca e il racconto di un riferimento geografico preciso, la serialità numerica delle opere attraverso la quale poter mappare un dato specifico, così come la rielaborazione astratta di un ricordo sono alcune delle caratteristiche costanti che emergono come un fil-rouge anche nelle sue opere più recenti. Nistru-Confines, rispetto ai lavori precedenti, sembra però racchiudere in sé una carica emotiva maggiore sia per i riferimenti politici sia per la presenza nuova di sculture in cartapesta le cui forme ritorte sembrano ricordare fili spinati, tracce di corpi e aridi arbusti. La disposizione delle sculture nello spazio della galleria accentua il senso di disorientamento; è pensata infatti per delimitare e deformare il concetto di spazio e di tempo, creando un percorso prestabilito che limita la libertà di movimento del visitatore, invitandolo a seguire il tracciato per poter superare il confine fisico e reale che lo separa dalle tele.
Osservando i dipinti di Nistru-Confines ci si accorge che la tensione è concentrata quasi sempre in alto, mentre le pennellate uniformi e leggere occupano la parte inferiore delle tele. Questa sospensione verso l’alto e la contrapposizione tra spazi pieni e vuoti conferiscono all’intero ciclo una forte sensazione di instabilità.
Guardandomi negli occhi Victoria mi dice con apparente calma “Il mio presente non è staccato dal passato” e così nelle sue tele frammenti di ricordi trascorsi si rimescolano con l’oggi, creando un nuovo tempo sospeso. Segni astratti sembrano nascondere tracce figurative. Scorgo una persona, una casa. Ritrovo un albero, un animale. Mi immagino Victoria intenta a dipingere, ogni tela per lei rappresenta un momento di totale intimità. Il pennello il mezzo per poter confessare ogni suo sentimento più profondo.
22.06.2018 - 24.07.2018
opening: 21.06.2018
22.06.2018 - 24.07.2018
Nell’ambito della prima edizione di Fo.To. Fotografi a Torino la galleria Alberto Peola presenta la mostra collettiva E il giardino creò l’uomo.
E IL GIARDINO CREÒ L’UOMO
testo di Francesca Simondi
Il titolo della mostra è la citazione del saggio E il giardino creò l’uomo di Jorn de Précy, filosofo giardiniere, personaggio letterario creato dallo storico dei giardini Marco Martella. De Précy, vissuto tra Ottocento e Novecento, epoca segnata da una grande trasformazione industriale, urbanistica e sociale, nel 1912 pubblicò in Inghilterra The lost garden in cui racconta la bellezza e la spiritualità dei giardini, luoghi sacri dove la natura può crescere libera e incontaminata, veri e propri rifugi per l’anima. Non manca di esprimere però la sua forte preoccupazione verso un mondo che sta cambiando, interrogandosi su quello che potrebbe essere il nostro destino: «[…] domandarsi cosa sarà del giardino significa domandarsi cosa ne sarà dell’umanità, tanto intimo è il legame tra giardino e uomo […]».
Il sacro bosco a lui solo e a nessun altro assomiglia.
Iscrizione scolpita nella pietra all’ingresso del giardino di Bomarzo
L’immagine fotografica di Gioberto Noro apre la collettiva presso la Galleria Alberto Peola. L’opera emana un’atmosfera onirica e al contempo sacra. Per coglierne la suggestione più profonda andrebbe guardata ascoltando A horse with no name degli America, a cui Sergio Gioberto e Marilena Noro si sono ispirati per la composizione del titolo Civilisation – An elder with no name. Nata da un sogno di Marilena, realizzata all’alba con una luce piena, l’opera vuole offrire una chiave di lettura positiva, una via d’uscita alla nostra sempre più evidente disumanizzazione. La canzone degli America termina con “Under the cities lies a heart made of ground, but the humans will give no love” (Sotto le città si adagia un cuore fatto di terra, ma gli umani non gli daranno amore). Ma forse, se prestiamo attenzione, possiamo ancora porre rimedio a questo nostro disinnamoramento.
Cambio di scena: la città moderna, un mondo inabitabile – il culto della macchina- gli ultimi spazi dell’incanto e la loro graduale distruzione – esistono ancora luoghi che sfuggono alla storia?
Jorn De Precy
Chissà quali sarebbero state le osservazioni di De Précy sulla città a distanza di più di un secolo dalla pubblicazione del suo libro. Egli descriveva la città come un luogo anonimo, fatto per le masse e non per l’individuo, un luogo disumanizzante. Se questo pensiero può essere in parte condivisibile, non si può negare che le città custodiscano mille volti e nella loro complessità nascondano anche il loro fascino. Questa suggestione appare evidente nelle fotografie ossessive e frenetiche di Simone Mussat Sartor che ci racconta la città e il suo ritmo costante e convulso nell’opera Scooter nord /Scooter sud, realizzata nel 2017 durante un viaggio in Vietnam. Si percepiscono la massa, il vociare della gente, il suonare dei clacson, l’energia delirante di un luogo che sembra non dormire mai. Ed è proprio in questa frenesia che è racchiuso il potere al contempo spaventoso e ammaliante delle città.
Allo sguardo istintivo e a colori di Simone Mussat Sartor si affianca quello razionale e monocromatico di Hilla e Bernd Becher le cui immagini descrivono un paesaggio fatto di un susseguirsi di cisterne, serbatoi idrici, silos, architetture industriali che, viste attraverso i loro occhi, ci appaiono in una veste nuova e mostruosamente seduttiva, come fossero le cattedrali del XX secolo.
Ma sono le opere di Botto&Bruno e di Dubravka Vidović a sottolineare in modo più evidente la rischiosa tendenza di una società sempre più disumanizzante.
Da sempre Botto&Bruno dedicano la loro arte alla periferia. Le loro opere sono il frutto di rielaborazioni in cui la periferia viene fotografata, ritagliata e ricomposta fino a creare un paesaggio periferico “altro”, che non esiste nella realtà ma che potrebbe identificarsi in qualsiasi luogo. Proprio come accade in Sing a lone star, paesaggi desolanti di degrado urbano sono spesso accompagnati da cieli plumbei, da riferimenti al mondo musicale e dalla presenza di giovani figure di cui non si riesce mai a scorgere il volto. Luoghi e identità fantasma che tentano di catturare la nostra attenzione.
L’ambiente che ci descrive Dubravka Vidović attraverso l’opera Shikumen’s wall #1 ci riporta in oriente, in Cina. Qui l’artista sofferma il suo sguardo sulle superfici dei muri degli shikumen, le tradizionali case di Shanghai, la città più popolosa al mondo, dove l’aggressiva politica di sviluppo urbano ha determinato la distruzione di queste abitazioni e il conseguente sfratto degli abitanti. Prima che fossero abbattuti, Vidović ha fotografato i muri degli shikumen, inserendovi tra i mattoni grezzi vecchi libri e frammenti di stoffa, traccia di vissuto umano altrimenti dimenticato.
Il giardinaggio…richiede una certa attitudine.
È necessario accettare il dinamismo della vegetazione con serenità
Gilles Clément
Le opere esposte nell’ultima sala della galleria costituiscono il capitolo conclusivo della mostra: la natura qui sembra prendere il sopravvento sull’essere umano e sulla città, la vegetazione spontanea si riappropria di ogni luogo abbandonato dall’uomo proprio come nel “Terzo Paesaggio” di Gilles Clément.
Paola De Pietri analizza con sensibilità il cambiamento sociale e ambientale del vasto territorio della pianura padana. La serie Questa Pianura è un lavoro meticoloso che la impegna per dieci anni, dal 2004 al 2014, durante i quali ha fotografato alberi e case coloniche ormai disabitate e spesso in rovina. Alberi e case, con una distribuzione non casuale nello spazio, hanno perso la loro funzione originaria agricola, economica e sociale, e appaiono come parole di un discorso frammentario di cui non è più possibile cogliere il senso complessivo. Se la dissoluzione e la rovina sono evidenti, gli alberi ora privati di vincoli funzionali, crescono nello spazio secondo il loro piano biologico naturale e originario.
In Black Silence i paesaggi periferici di Botto&Bruno vengono questa volta ispirati dalle illustrazioni fantastiche di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, che gli artisti hanno via via celato attraverso sovrapposizioni e ripetizioni di segni a china, nero su bianco, dando vita a una vegetazione astratta che lentamente si riappropria di angoli e interstizi urbani.
Out of Garden #2 di Gioberto Noro, immagine volutamente enfatizzata, sprigiona un’atmosfera magica e surreale. Un paesaggio con un che di lunare ingloba tra le sue rocce quel che resta di un bunker corroso dal tempo, traccia tangibile della guerra, quasi come se la natura avesse il potere di azzerare tutto, ma anche di chiederci di fermarci, di ascoltare e di ridimensionarci.
Infine, emblematica e potente è l’opera di Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti. Decontestualizzata dall’ampio progetto Most Were Silent realizzato ad Alamogordo, New Mexico, dove ebbe inizio l’era atomica, l’immagine tagliente di un cactus, illuminato da un flash abbagliante, sembra parlare anche di un’altra storia, quella di Pripyat, città ucraina ormai fantasma, emblema del disastro nucleare di Chernobyl, dove la natura ha riconquistato con fatica il territorio violato. E così il cactus, fotografato là dove furono eseguiti i primi test nucleari, può diventare anche simbolo della forza della natura che si oppone ai disastri ambientali che l’uomo continua a provocare.
04.05.2018 - 01.06.2018
opening: 03.05.2018
04.05.2018 - 01.06.2018
Anush Hamzehian / Vittorio Mortarotti
MOST WERE SILENT
a cura di Stefano Riba
Inaugurazione: giovedì 3 maggio 2018, dalle 18:00 alle 21:00
Durata: 4 maggio – 1 giugno 2018
Orario: martedì – sabato, ore 15-19. Mattino su appuntamento
Nell’ambito della prima edizione di Fo.To. Fotografi a Torino, che apre il 3 maggio 2018, la galleria Alberto Peola presenta Most were silent, la personale di Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti. Most were silent è la prima personale alla galleria Alberto Peola di Anush Hamzehian e Vittorio Mortarotti. I lavori della coppia, presente da anni sulla scena artistica internazionale, spiccano per l’originalità nell’utilizzo dei linguaggi dell’immagine documentaria (fotografia e video) e per l’attenzione verso le marginalità storiche, geografiche e sociali. Dopo aver trattato, negli ultimi lavori, le conseguenze fisiche e psicologiche del post-tsunami in Giappone, gli effetti sociali della chiusura delle miniere in Belgio e la violenza del confine tra Armenia, Azerbaigian e Iran, nell’aprile 2016 Hamzehian e Mortarotti trascorrono più di un mese ad Alamogordo, in New Mexico. Scelgono il luogo seguendo la prassi dei geologi che studiano la propagazione delle onde sismiche per andare, a ritroso, alla ricerca del punto di origine. Alamogordo diventa così l’ ‘epicentro’ da cui partire per affrontare i temi trattati da Most Were Silent: la guerra e le sue conseguenze. In questa assolata e sonnolenta cittadina alle propaggini del deserto della Jornada del Muerto, nulla sembra oggi evocare il ricordo di eventi bellici. Eppure è qui, nel segreto di una base militare, che l’energia atomica venne usata per la prima volta come strumento di distruzione. L’esplosione avvenne il 16 luglio 1945 e nulla sarebbe più stato come prima. “We knew the world would not be the same – disse Robert Oppenheimer, il fisico a capo dello sviluppo della prima bomba nucleare, che proseguì l’intervista riportando le reazione dei suoi colleghi del Manhattan Project, un ricordo da cui gli artisti traggono il titolo della mostra – A few people laughed, a few people cried, most people were silent”. In questo scenario storico e geografico, Alamogordo è la città più vicina al luogo dove ebbe inizio l’era atomica nella sua potenza distruttiva (Hiroshima e Nagasaki) e dissuasiva (guerra fredda). Dal territorio che ha fatto da sfondo a questo evento epocale, gli artisti fanno partire la riflessione che affronta i temi atavici della violenza umana e della memoria storica. Temi che nel corso dei millenni sono stati indagati da ogni forma di espressione intellettuale (arti visive, letteratura, giornalismo) e che gli artisti affrontano da una prospettiva inaspettata e profonda. La mostra si apre con il video in cui una ragazza cieca, studentessa alla New Mexico School for the Blind and Visually Impaired (nella quale gli artisti hanno tenuto un workshop), legge la relazione, tradotta in lingua braille, che lo scienziato Philip Morrison scrisse dopo aver assistito allo scoppio della bomba. Accanto a questo lavoro una bacheca accoglie un frammento di trinitite (sabbia trasformata in vetro dal calore dell’esplosione nucleare), un video di propaganda sullo sviluppo e le necessità belliche della bomba e un volume scientifico sugli effetti medici di questo tipo di ordigno.
Nella sala successiva, un secondo video e una serie di fotografie vanno alla ricerca, ad Alamogordo e nei suoi dintorni, della memoria e delle tracce di conflitti reali o immaginari, passati o presenti. Gli artisti filmano il racconto di un reduce della seconda guerra in Iraq e scattano una serie di immagini in bianco e nero in cui i volti e i luoghi ritratti sembrano sospesi nell’inquietudine dell’istante che precede l’evento che porterà a un cambiamento irreversibile. La mostra si chiude nella terza sala espositiva con un cortometraggio ambientato a Trinity Site, il luogo, all’interno della base White Sands Missile Range a 80 chilometri da Alamogordo, dove avvenne il primo test nucleare che oggi è celebrato da un obelisco commemorativo. Il film, girato nell’unica occasione annuale di apertura al pubblico del sito, raccoglie i ricordi e le interpretazioni dell’evento espressi, attraverso l’inevitabile filtro delle convinzioni personali, da alcuni visitatori civili e da personale militare. In Most Were Silent il racconto della guerra (quella in Iraq, quella nucleare e del suo spauracchio) avviene in maniera indiretta, rimandando ad altre sfere sensoriali ed emotive: la testimonianza oculare del primo test atomico passa attraverso la voce di una ragazza cieca; le memorie dei compagni caduti si accompagnano alle immagini di un pacifico lavoro di giardinaggio; l’inquietudine che pervade i lavori fotografici lascia presagire oscuri scenari mentali. Hamzehian e Mortarotti usano il prisma della sinestesia, un fenomeno sensoriale/percettivo che indica una “contaminazione” dei sensi, per ampliare la profondità percettiva dei loro lavori e mostrare che la Storia è un processo di stratificazione e assorbimento modificabile secondo filtri individuali o collettivi. Tuttavia, ogni “contaminazione” comporta dei rischi, soprattutto quando si tratta di modificare la memoria comune. Proprio per questo la forza di Most Were Silent, oltre a risiedere nella bellezza e nella poesia delle immagini, è riuscire a creare una nuova prospettiva nel racconto e nel ricordo della Storia, senza smarrire l’intento principale di ogni narrazione: che non è quello di preservare la verità, ma di mantenere intatta l’onestà. Stefano Riba Anush Hamzehian (Padova, 1980) e Vittorio Mortarotti (Savigliano, 1982) hanno realizzato progetti con rifugiati politici, ex minatori, prostitute, sopravvissuti dello tsunami e veterani di guerra. Le loro installazioni video-fotografiche sono state esposte, tra gli altri, alla Blueproject Foundation di Barcellona, al Casino Luxembourg, alla Fotoraum di Colonia e a Foto Forum di Bolzano. Per il progetto Eden hanno vinto il Leica Prize alla biennale Images Vevey e il premio Level Zero di Art Verona che li ha portati a esporre al MAXXI di Roma. La loro pratica prevede anche la pubblicazione di libri d’arte. Nel 2015 The First Day of Good Weather è stato tra i finalisti del First Book Award di Londra, l’anno successivo Eden è entrato nella selezione del fotografo americano Ron Jude dei 10 migliori photobook del 2016. All’attività artistica Hamzehian e Mortarotti affiancano quella documentaristica. Nel 2016 L’Académie de la Folie è stato insignito dell’Étoile de la Scam mentre a breve, contemporaneamente alla mostra presso la galleria Alberto Peola, uscirà il loro lungometraggio Monsieur Kubota, un documentario sulla ricerca dell’immortalità co-prodotto dalla televisione pubblica francese (France 2).
Stefano Riba è curatore indipendente e tecnico dell’arte. Nel 2012 ha fondato a Torino lo spazio espositivo Van Der, che attualmente trova sede a Bolzano. Dal 2014 cura la serie di mostre e residenze Passi Erratici. Insegna Exhibit Design presso la Libera Università di Bolzano.
02.03.2018 - 24.04.2018
opening: 01.03.2018
02.03.2018 - 24.04.2018
La galleria Alberto Peola è lieta di presentare la prima mostra personale a Torino di Paolo Bini, a cura di Luca Beatrice
Quello della pittura, prima ancora che un mestiere, un’arte, è una disciplina. Un’esigenza quotidiana che impone riflessione, esercizio, metodo. Una pratica che si trasforma in urgenza. Diversamente da altri linguaggi, la pittura può vivere anche senza un particolare progetto perché al pensiero e alla teoria si vanno sommando l’istinto e il talento. L’uno non può funzionare senza l’altro e solo mettendoli insieme il meccanismo allora funziona. Ecco perché di pittori davvero interessanti e coraggiosi in giro se ne vedono pochi.
Parlando con Paolo Bini di questa mostra, a lungo abbiamo riflettuto sul titolo. Bocciate tutte le proposte in inglese, ho preferito concentrarmi su quanto spazio la pittura occupi nella sua vita: è il suo lavoro, la sua passione, la sua curiosità, la sfida continua, prima di tutto a se stesso. Ne parla, chiede, cerca confronto, con estrema gentilezza e altrettanta prontezza ti informa sui risultati in corso, esterna dubbi, dialoga, ascolta, riflette e alla fine il risultato corrisponde sempre a qualcosa di sorprendente. La pittura, giorno dopo giorno, è la condizione esistenziale di Paolo Bini, frutto di una ricerca che lo insegue e di un’umanità contagiosa e travolgente. La sua vita, parafrasando un grande film, Vita di P.
Volendo applicare alla lettera le categorie imposte dalla storia dell’arte, i dipinti di Bini andrebbero inseriti all’interno dell’astrazione, ma certo non ha più senso limitarne l’analisi attraverso schemi novecenteschi. Anche la pittura di Paolo si è misurata, affrontandolo, con il cambiamento in atto che prevede un’ampia possibilità di contaminazioni e meticciati linguistici: oggi si fa pittura, paradossalmente, senza dipingere, tenendo conto della tecnologia, dell’immagine liquida, dei materiali anomali e comunque non aulici, del necessario filtraggio dell’arte concettuale. La pittura post Duemila è scienza globale, completamente delocalizzata, morbida e fluida, compatibile al web. Eppure, nel suo caso, incanta, seduce, perché, da qualsiasi parte la si prenda, non tradisce mai la sintassi del colore, unica regola da cui è impossibile prescindere.
Nell’autunno 2016 Paolo Bini vinse il Premio Cairo, il più importante riconoscimento per artisti italiani under 40. Di poche settimane dopo il difficile confronto con le sale della Reggia di Caserta, dove riuscì a trovare insieme forza ed equilibrio per una mostra davvero convincente e matura, rara se si pensa alla sua giovane età, neppure 34 anni. Vive a Battipaglia, dove è nato, e spesso se ne va in Sudafrica, la sua seconda terra dall’altra parte del mondo. WhatsApp-dipendente, quando è laggiù mi manda foto di paesaggi in cui domina costantemente la luce. Altro elemento grammaticale di chi fa pittura. Cercare luce, a favore di vento, dominare gli istinti e trasformarli in ragione. Ci riesce sempre. Mi invia proposte di titoli per i suoi quadri, titoli caldi, evocativi, che il primo a meravigliarsi, quando il quadro è finito è proprio lui.
Da circa un anno lavoriamo insieme a questa mostra cui tiene molto. Gli ho detto “Paolo, fai attenzione questa è la mia città, esigente e severa, fammi fare bella figura”. Il risultato? Io sono soddisfatto, contento e felice, ma non avevo molti dubbi in proposito.
Luca Beatrice
04.11.2017 - 23.12.2017
opening: 04.11.2017
04.11.2017 - 23.12.2017
Botto&Bruno
White noise a cura di Lea Mattarella
La mostra si chiama White noise, Rumore bianco come il romanzo di Don DeLillo pubblicato nel 1985. E il titolo è lo stesso della grande opera che ci accoglie nella prima sala della galleria Peola. Un Botto&Bruno, senza dubbio – loro hanno quel tocco, un modo di “costruire l’immagine come se dipingessimo” irripetibile e inconfondibile – ma nello stesso tempo un’opera inedita per loro, apparentemente diversa dalle precedenti. È come se avessero allargato il punto di vista e ciò che prima era in primo piano si è allontanato, moltiplicando le immagini. Però te le devi andare a cercare dentro questo paesaggio apocalittico abitato dall’invenzione letteraria della nube tossica che sconvolge le vite di Jack, professore universitario, della sua famiglia e della sua città dove tutto sembrava andar bene perché gli eventi si succedevano sempre uguali, anno dopo anno. Quando Botto&Bruno mi hanno mandato l’immagine di questo quadro ho fatto proprio così: ho messo lo zoom allo sguardo per scrutare ogni angolo di questo mondo in decomposizione. E ho scovato oggetti che appartengono al mondo dei due artisti, perché provengono dai luoghi che compongono la scenografia delle periferie del mondo. E queste, come sappiamo, si assomigliano tutte. Ecco la radio con i suoi altoparlanti, costruzioni di ruote di gomma per automobili, autobus fermi da chissà quando, macchine bruciate, case di lamiera, silos, gru, rovine, una tastiera, massi accatastati, piccoli e grandi esplosioni, frammenti di uomini e di donne di cui possiamo vedere solo una parte del corpo, mai il viso (e questo è tipico della coppia di artisti: celare sguardi, espressioni). Poi ci sono le parole, un bianco e nero chiamato a smorzare o a esaltare toni e timbri. “Ogni piccolo frammento di immagine racconta una storia, è una traccia. Ognuno di noi, in base alla propria esperienza di vita, può ricostruire una storia personale”, dicono Botto&Bruno di quest’opera, nata dall’accumulo di centinaia di riviste su cui è avvenuta una selezione lenta, come tutta la realizzazione del quadro. I nostri artisti rivendicano un tempo dilatato nella costruzione dell’opera. E lo pretendono anche nella fruizione. Hanno ragione: le loro opere devono essere guardate a lungo, una volta si sarebbe detto contemplate, oggi la parola sembra desueta e addirittura portatrice di contenuti antichi, ma è un’azione, quella della contemplazione, che dovrebbe tornare a far parte dell’attività di chi guarda. Dunque, contemplando questo mondo stratificato, una città che è diventata una gigantesca periferia che “trasuda caldo”, sembra sciogliersi, trangugiando nello stesso momento oggetti e storie, edifici e vite vissute al loro interno, anche io ho ricostruito il mio racconto personale. Immediatamente l’opera di Botto&Bruno si è accavallata al romanzo che stavo leggendo: le due cose nella mia immaginazione andavano di pari passo.
Ogni pagina di Exit West, l’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, quello de Il fondamentalista riluttante, si andava colorando con le tinte acide di White Noise, con le sue luci quasi isteriche, con quel mondo senza redenzione. Gli artisti e lo scrittore pakistano stavano raccontando la stessa cosa: quello che accade quando un paesaggio conosciuto si trasforma in un gigantesco animale misterioso, capace di abbattere, stritolare, di negare ciò che serve diventando una vera e propria trappola. Insomma, cosa succede se a vincere non è il cavaliere che salva la principessa, ma il drago che spalanca le sue fauci di fuoco. Nel libro di Hamid ci sono porte che puoi attraversare per arrivare in posti lontani, a cercare una vita migliore. E i due protagonisti, forti di un giovane amore, fuggono prima dal loro paese in guerra e poi da diversi campi profughi in cui vivono in condizioni sempre più difficili, finendo in una Londra spaventosa in cui migranti e autoctoni, abitanti del buio e della luce, si scontrano senza sosta. La musica, consolatrice per entrambi, è negata. Ad ascoltarla si rischia la vita. Anche qui radio e tastiere sono abbandonate, proprio come nei dipinti della nostra coppia. Ho immaginato che la città raccontata in White noise da Botto&Bruno, nata dalla suggestione di un romanzo, ne potesse accogliere altri: non solo quello apocalittico di Hamid che per me ormai lo aveva come sfondo continuo, ma anche Forte movimento di Jonathan Franzen, Eccomi di Jonathan Safran Foer. L’elenco si allungava, mentre si affacciava anche il cinema, l’ultima scena di America oggi di Robert Altman (ispirata dai racconti di Raymond Carver), sembra precedere di poco quella del nostro quadro. Ora, se un’opera è capace di portarti in tanti luoghi diversi, vuol dire che ha vinto lei. Mostrando se stessa ha costruito mondi. E io ho deciso di non smettere di guardarla, perché sono sicura che questo paesaggio accoglierà molte altre storie. E non soltanto mie. C’è poi una grande sala in bianco e nero dominata dal disegno. “A differenza degli altri lavori siamo partiti dal fantastico per raggiungere il reale, è stato come attuare un procedimento opposto a quello abituale”, spiegano gli artisti. E infatti il punto di partenza sono Ventimila leghe sotto i mari di Verne e le illustrazioni d’epoca conservate nel tempo da questi due accumulatori seriali di immagini. La stanza, con i fogli stropicciati che ne occupano la parete, diventa una grotta abitata da una natura che sembra volersi riprendere i suoi spazi. Anche qui il tempo di esecuzione sceglie la strada della lentezza: sono migliaia di piccoli segni realizzati con il pennello che si utilizza per gli ideogrammi giapponesi a sovrapporsi (ancora un processo di stratificazione) alle vecchie immagini che a poco poco sono inglobate in una vegetazione nera e vibrante, forse spaventosa, ma comunque viva. Al centro c’è un collage con i temi di Botto&Bruno. E tu pensi che se tutto va come deve andare, la natura, lasciata in pace, dimenticata, nascosta, ritroverà anche i suoi colori. L’ultima stanza è abitata da un lungo fregio in bianco e nero che ogni tanto si allarga per farci assistere alla ricomposizione di un paesaggio. A me è venuto in mente il film Mommy di Xavier Dolan. Il regista proietta il suo struggente viaggio nel dolore di una madre e di un adolescente tutto in verticale, in una dimensione inusuale per uno schermo cinematografico. Solo quando sembra possibile un’idea di felicità, fa allargare l’immagine. Proprio dalle mani del ragazzo protagonista che apre la scena come avesse tolto un sipario. Botto&Bruno fanno qualcosa di simile: la dimensione cambia quando c’è posto per un’idea di serenità. E loro sono lì ad aprire la scena. Anche questi ultimi paesaggi hanno delle tracce di una vecchia malattia, ma a differenza del primo altri sembra siano in grado di riconoscere una cura. Il finale è aperto. A ognuno il suo.
22.09.2017 - 28.10.2017
opening: 21.09.2017
22.09.2017 - 28.10.2017
La galleria Alberto Peola è lieta di ospitare la mostra personale Arcadia di Gabriele Arruzzo.
Il fantasma della nostalgia
Ho conosciuto Gabriele Arruzzo nel 2003. Esponeva in una collettiva curata da Luca Beatrice e Guido Curto, intitolata Almeno 16 minuti (qualcosa di più dell’effimera celebrità profetizzata da Andy Warhol) e allestita alla Galleria Art & Arts, che ebbe vita assai breve. Lui presentava un’opera ispirata al trittico Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion (1944 ca.) e, avendo io discusso una tesi su Francis Bacon pochi anni prima, catturò la mia attenzione. Ne parlammo a lungo, in strada.
Non sono state molte le occasioni d’incontro negli anni seguenti, ma ci siamo seguiti vicendevolmente con una certa costanza. Ciò che mi interessava, e che mi continua a interessare, è la tenacia con la quale Arruzzo ha proseguito nella sua ricerca – intendo la pittura, i temi a lui cari, le sue maniacalità tecniche e lo studio minuzioso dei soggetti. Mi affascina questo suo anacronismo, l’amore infinito per Piero della Francesca che l’ha condotto a insegnare all’Accademia di Urbino – con risultati encomiabili: ho avuto modo di tastare con mano la devozione con la quale i suoi studenti lo seguono; un anacronismo al quadrato nel panorama più glamour dell’arte italiana, dove essere pittore non aiuta, e dove essere un pittore colto aiuta ancor meno.
Se qualcuno nutrisse dei dubbi in merito, dovrebbe procurarsi il piccolo ma prezioso catalogo della sua precedente mostra personale, tenutasi nel 2015 a Milano, alla Galleria Giuseppe Pero: vi troverà, oltre a un bel testo di Alberto Zanchetta, molte pagine riprodotte e sottolineate di volumi dalla natura assai diversa l’uno dall’altro – su Piero e Dürer e Malevič, ma anche testi di antropologia e critica d’arte, teologia e storia. Il tutto precipita chimicamente in un ciclo di lavori, raccolti sotto il titolo Apocalisse con figure, che di cotanti riferimenti teorici possono fare tranquillamente a meno.
Questo significa, a mio parere, fare della buona pittura, della buona arte: costruire fondamenta solide e renderne in-essenziale la conoscenza. Va da sé che tale inessenzialità non preclude la possibilità di esplorare quelle fondamenta, per tentare di sciogliere – o almeno di contemplare con maggior cognizione di causa – quelli che Ivan Quaroni ha efficacemente chiamato “ossimori visivi”, riferendosi ai dipinti di Arruzzo (in Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura, Johan and Levi, Milano 2007, p. 24). È ancora, questo, un indizio della bontà della sua pratica: le pitture parlano da sé e di sé, producono effetti stranianti sulla percezione – visiva anzitutto, e può senz’altro bastare; ma anche intellettuale – e allora si può aprire un dialogo con esse, e si può avere il desiderio di imparare la lingua in grado di imbastire una comunicazione almeno virtualmente a doppio senso, tentare di non ascoltare soltanto l’opera ma di risponderle. È il famoso e talora famigerato doppio livello di lettura, che non va assolutamente inteso come una graduatoria di merito.
Tutto questo vale anche per il nuovo ciclo di opere, intitolato Arcadia. Due anni di lavoro che hanno realmente assorbito – mi si creda sulla parola – l’artista, due anni durante i quali Arruzzo ha rivoluzionato il proprio modo di procedere e produrre. Certo, in un’opera come la sua, le rivoluzioni non sono mai copernicane, non sono plateali, ma questo non significa che siano prive di conseguenze. Il lavoro è stato compiuto in solitaria, senza l’ausilio di assistenti; il metodo compositivo stesso è mutato: mentre prima era chiaro sin dall’inizio il progetto generale, che veniva realizzato su tela disegnando i contorni e poi riempendoli di colore, ora l’artista ha proceduto con minore premeditazione, navigando a vista di tela in tela, e rendendo più indipendente le variabili disegno/colore.
Il risultato è sotto i vostri occhi e, se anche minimamente ricordate gli esiti del 2015, noterete una differenza sostanziale: la staticità dei dipinti precedenti ha ceduto il passo a una mobilità inaudita, e ciò grazie a una sorta di base astratta, “ridefinita a servizio del pretesto figurativo”, come racconta lo stesso artista (l’esempio più evidente è rappresentato da senza titolo (contadinella)).
Questo per quanto riguarda la tecnica. Per ciò che concerne i temi, assistiamo a un’altra inversione di rotta. Se in Apocalisse con figure l’attenzione di Arruzzo era rivolta alle drammatiche tensioni geopolitiche in corso sul nostro pianeta, ora quel pur mediato riferimento all’attualità scompare. O meglio, si inabissa. È un ritorno ai fondamentali, che mi pare in linea con le scelte curatoriali effettuate da Christine Macel nel corso dell’ultima edizione della Biennale di Venezia. Arruzzo sceglie però di essere radicale in questo ritorno: radicalità che sta nel titolo Arcadia e in una profusione di topoi, di figure retorico-pittoriche stereotipate – il pittore al lavoro en plein air (quasi inutile sottolineare le eco paoliniane), il pittore e la modella, il pastorello e la pastorella, la contadinella e finanche il gattino.
Definitivo acquietarsi di quell’ossimoro visivo di cui parlava Quaroni? Tutt’altro, in realtà. Perché le tinte fosche riemergono, ora con durezza (a season in limbo (in me la notte non finisce mai)) ora con più sottile carica perturbante (le piramidi dai colori acidi che spuntano tra le frasche in senza titolo (pastorella) e senza titolo (pastorello) sono colossali indizi di Un-heimlickeit, di qualcosa che perturba la familiarità del contesto e della scena).
Qui risiede dunque la linea di continuità che permette di assegnare le novità di Arcadia nella traccia coerente dell’opera di Arruzzo: la nostalgia che parla attraverso i temi bucolici è un nostos, un ritorno funestato dal fatto che la meta, la meta familiare e rassicurante, non è mai esistita. “La grande pittura paesaggistica inglese si afferma in un periodo in cui la nebbia mista al fumo delle ciminiere della Londra di Dickens la si poteva quasi tagliare con il coltello”, racconta lucidamente l’artista. Cosa c’è di più Unheimlich di una familiarità turbata da un piccolo ma eloquente errore di sistema, se non il carattere fantasmatico della casa in cui quella familiarità avrebbe avuto luogo?
Intanto, in giardino dorato (osservarsi osservando), il paesaggio vira al rosso, la modella distoglie lo sguardo e le traiettorie di volo di foglie e uccelli assumono forma di tag.
Marco Enrico Giacomelli
23.06.2017 - 16.09.2017
opening: 22.06.2017
23.06.2017 - 16.09.2017
La mostra TAKE CARE. Esercizi di attenzione intorno a sei lajes e una stele di Matheus Rocha Pitta ha origine da un’attività di ricerca, studio e intervento conservativo su tre opere dell’artista brasiliano Matheus Rocha Pitta, tra i più interessanti protagonisti della giovane scena artistica sudamericana. La mostra prende forma negli spazi della Galleria Alberto Peola come un discorso in cui le opere funzionano da fulcro di una riflessione che indaga la reciprocità tra pratiche e poetiche, nell’intreccio tra atti creativi e curatoriali, tra conservazione e produzione. Concepita insieme all’artista, la mostra presenta un’imponente stele e sei lajes, opere ricorrenti nella sua ricerca costituite da lastre di cemento armato di diverso formato la cui superficie incorpora ritagli di carta con immagini selezionate in giornali e riviste e conservate nel corso degli anni. Da questo personale archivio, Rocha Pitta attinge per veicolare storie, memorie e situazioni tra il passato e il presente, spesso legate al Brasile, dalle quali emerge la denuncia delle diverse forme di autoritarismo, di mistificazione dell’informazione, di sfruttamento e ingiustizia, cui si unisce una profonda adesione umana al mondo del vinti. Con un padre e un fratello artista, una formazione in filosofia e dieci anni come assistente degli artisti Miguel Rio Branco e Rosangela Rennò, Matheus Rocha Pitta ha eletto “la strada come proprio spazio mentale di lavoro” e ha dato all’uso di materiali comuni e “a portata di mano” quali cibo, acqua, sassi, terra, giornali e cemento, il valore di una scelta politica. Le lajes in cemento sono molto popolari in Brasile: vengono realizzate collettivamente per rivestire i tetti delle case nelle favelas o nei cimiteri poveri di Minas Gerais come copertura delle fosse: l’artista le produce colando il cemento in cassette di cartone usate per gli ortaggi nei mercati. Ricalcando le tecniche dell’auto costruzione e scegliendo di accostare il cemento con la sostanza fragile e senza valore della carta di giornale, Rocha Pitta assegna all’incongruità tra i due materiali e alla forzatura generata dal loro accostamento il valore di una violenza latente e insieme di un atto di resistenza. Le lajes, come le stele, sono infatti superfici ricettive che custodiscono tracce: le pieghe del cartone, i rilievi e le impronte di frammenti e oggetti, le immagini di cronaca sottratte al rapido consumo. Nelle due opere Laje #19 (Herzog) AP1 e Laje #19 (Herzog) AP2, prove d’autore di una serie di 12, l’artista accosta al ritaglio che mostra un apparecchio fotografico in dotazione alla polizia per le indagini, la fotografia diffusa nel ’75 dal regime militare per documentare il suicidio del giornalista comunista Vladimir Herzog, arrestato, morto in carcere e riconosciuto solo nel 2012 vittima della dittatura. A partire dal “contagio muto tra le immagini”, dal loro uso sociale e politico, Matheus Rocha Pitta sollecita l’attenzione e l’impegno di chi guarda. Frutto di un lavoro compositivo e progettuale più lungo e meditato, le stele assumono invece un valore assertivo più che narrativo e un impatto monumentale sebbene declinato in scala umana. In For The Winners The Potatoes (2017), che ha dato il titolo alla personale al Künstlerhaus Bethanien di Berlino, l’artista cita un romanzo di Joaquim Maria Machado de Assis, Quincas Borba (it. Gioachin Borba. L’uomo o il cane?,1891), e invita a riflettere sul significato e il valore del trofeo, producendo una temporanea sovversione nella gerarchia tra vincenti e perdenti. L’avvertenza Take Care, con la quale si è voluto dare il titolo a questa mostra, intende porre in evidenza, intorno all’esercizio dell’attenzione e alla “cura”, una sorta di comunità d’intenti che comprende, qui come altrove, l’artista, il pubblico, il curatore, il restauratore, il gallerista. Alla base di questa temporanea “istituzione” vi è l’opera, che nel caso delle lajes di Matheus Rocha Pitta è espressione della perfetta simmetria tra poetica e pratica, tra contenuti, materie e tecniche, tra vulnerabilità – della memoria, della materia, dei vinti – e persistenza. Ai gesti dell’artista hanno fatto eco quelli di Sara Stoisa, giovane restauratrice che a compimento del suo percorso accademico in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali, ha affiancato l’artista nel suo atelier e portato i processi di produzione nel cuore dei percorsi di restauro, così come i parametri per la conservazione all’origine della dinamica creativa. In occasione della conclusione della mostra, la Galleria Alberto Peola ospiterà un momento di riflessione su questi e altri temi sollevati dal progetto espositivo. In mostra sarà visibile un video con l’intervista all’artista realizzata da Sara Stoisa, in occasione della sua permanenza in Brasile per le ricerche finalizzate al restauro di tre lajes, oggetto del suo lavoro di tesi per la Laurea Magistrale in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Torino con il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” (relatori prof. Sandra Vazquez e prof. Oscar Chiantore). Nato nel 1980 a Tiradentes, in Brasile, Matheus Rocha Pitta lavora con la fotografia, la scultura, il video, l’installazione, spesso attivata con azioni del pubblico, invitato a muoversi e a collegare i diversi elementi che danno forma alle mostre. Ha esposto nel 2016 da Gluck 50 a Milano, a conclusione di una residenza nella quale ha prodotto il progetto NO HAY PAN, installazione e performance che cita uno slogan delle proteste in Spagna. Matheus Rocha Pitta ha preso parte a rassegne a carattere internazionale quali la 9th Taipei Biennial a Taiwan (2014), la 29th São Paulo Biennial in Brasile (2010) ed esposto in musei e centri d’arte come il Matadero di Madrid (2014), il Palais de Tokyo di Parigi, la Fondazione Morra Greco di Napoli, il Krannert Art Museum, in Illinois, USA (2013). Le sue opere fanno parte delle collezioni pubbliche del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, del Museu de Arte Moderna de São Paulo.
11.04.2017 - 27.05.2017
opening: 10.04.2017
11.04.2017 - 27.05.2017
La galleria Alberto Peola è lieta di ospitare la mostra personale Reflecție/Repetiție di Cornelia Badelita (Radauti, Romania, 1982. Vive a lavora a Torino).
Negli ultimi anni Cornelia Badelita ha raccolto con costanza e curiosità copie di quadri antichi. La sua collezione è costituita in gran parte da imitazioni di dipinti cinque, sei e settecenteschi, spesso nature morte o ritratti, i cui autori sono più o meno noti agli storici dell’arte. Le riproduzioni sono state realizzate nel corso degli anni Novanta da anonimi copisti cinesi, i cosiddetti “ritrattisti di Mao”, i quali hanno reinterpretato, secondo le proprie capacità e il proprio gusto, la storia dell’arte occidentale. L’interesse di Badelita per questi dipinti si concentra principalmente su due aspetti: la ripetizione del gesto e la condizione di simulacro. Essi, infatti, costituiscono una folta schiera di copie, orfane del loro originale, su cui a sua volta Badelita interviene.
L’artista si è interrogata a lungo sull’essenza dell’originale. Si è domandata se e come fosse possibile rintracciarlo attraverso le sue copie. L’originale sta nella sovrapposizione di tutte le copie, oppure si conserva soltanto in ciò che rimane dalla loro sottrazione? Si nasconde dove la pennellata è più spontanea, fluida e sicura o, al contrario, si manifesta nei punti in cui la mano si è fatta incerta, timida, a cercare di emulare con cautela ed esitazione una porzione particolarmente complessa di pittura? Le sue domande hanno assunto la forma di installazioni. Le copie, spesso sistemate l’una accanto all’altra, sono oggetto dei suoi interventi pittorici, impercettibili o vigorosi ed evidenti. In alcuni casi un frammento è ripetuto con minime variazioni fino a diventare un elemento astratto, in altri a essere indagata è la specularità dell’immagine. Badelita crea mondi specchianti, in cui le forme e i colori si fronteggiano. Dà vita a universi che si dispiegano orizzontalmente o verticalmente, che perdono la loro originale fisionomia per assumerne una inaspettata.
L’intervento pittorico di Badelita è un’azione che fa della ripetizione (in rumeno repetiție) e della riflessione (reflecție) i propri momenti privilegiati. «La riflessione – spiega l’artista – intesa anche come riflesso, trova in Narciso il proprio simbolo e si pone nel punto d’origine dell’arte stessa. È parte del tradizionale insegnamento accademico valutare la buona composizione di un dipinto analizzandone il riflesso su una superficie specchiante. La ripetizione è anch’essa elemento fondamentale della formazione e della successiva attività di un artista». Nella pratica e nell’estetica di Badelita, la ripetizione si carica di connotati profondi, legati al rito, alla ciclicità delle azioni e dei tempi, al carattere talvolta ossessivo dell’attività pittorica.
10.02.2017 - 01.04.2017
opening: 09.02.2017
10.02.2017 - 01.04.2017
La galleria Alberto Peola è lieta di ospitare la seconda mostra personale di Cosimo Veneziano (Moncalieri TO, 1983).
Le opere inedite presentate concludono la ricerca di Cosimo Veneziano sul ruolo della scultura nello spazio pubblico nella società contemporanea, e sul valore iconografico e simbolico che le immagini assumono nel processo di creazione della propaganda politica. In particolare il suo interesse si rivolge al processo di selezione di fatti e personaggi e scarto di altri, che viene messo in atto nella costruzione di un’iconografia da parte di una comunità, prima che il simbolo sia collocato nello spazio pubblico, fisico o virtuale.
Nelle due opere della serie Petrolio i disegni su tela della scultura di un toro androcefalo e di una scultura religiosa, originarie dell’ epoca assiro-babilonese, sono parzialmente coperti dal feltro per evidenziare la recente distruzione nei conflitti in Medio-Oriente. L’opera invita a riflettere sul peso e sugli effetti che ha sull’ immaginario la perdita di un patrimonio culturale riconosciuto come collettivo.
Il gruppo di sculture in ceramica dal titolo Membrana è composto da riproduzioni di parti di statue greche e romane sulle quali Veneziano ha operato una deformazione attraverso un processo di stratificazione materica, contrapponendo l’originaria fisionomia frontale della statua a quello che doveva essere l’aspetto della parte esterna del calco. Anche in questo caso l’occultamento della visione corrisponde all’idea della perdita di un’identità culturale avvenuta nel tempo.
Monochrome II lavora sulla capacità percettiva graduale dell’osservatore. La serie di colature di gomma siliconica è realizzata partendo da una matrice di dipinti su tela, che raffigurano simboli iconografici propri delle culture occidentale e orientale, che si sono succeduti nel tempo.
Nell’ultima sala della galleria sono esposte quattro tele di grandi dimensioni sulle quali Veneziano ha disegnato figure umane armate di martello. Per questo ultimo lavoro dal titolo Giorni di un futuro passato, l’artista riprende immagini usate dalla propaganda delle rivoluzioni politiche del passato, e le mette in dialogo tra loro per evidenziare l’enfasi posta sull’atto di distruzione che sottende ai processi di rottura e cambiamento avvenuti nella storia umana. La forza dirompente dell’atto e la monumentalità della rappresentazione rimandano a un intento celebrativo, in contrapposizione al processo di censura che avviene anche durante i periodi di continuità politica.
La mostra Petrolio/Appunti si sviluppa in due sedi: Galleria Alberto Peola e MEF Museo Ettore Fico.