Gallery
Aperta nel 1989 da Alberto Peola a Torino in un palazzo ottocentesco, la galleria si caratterizza fin dall’inizio per l’interesse e il sostegno verso gli artisti giovani o emergenti, con una prospettiva che unisce l’attenzione al contesto italiano e il dialogo con alcuni protagonisti della scena europea e internazionale. La galleria ha presentato per la prima volta in Italia artisti come Botto&Bruno nel 1996, Martin Creed nel 1999, Lala Meredith-Vula nel 2002, Michael Rakowitz nel 2006, Emily Jacir nel 2007.
Sempre attenta alle nuove tendenze che trovano personali soluzioni narrative nell’impiego dei diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura ai video alle installazioni, la galleria collabora continuativamente con un rilevante numero di artisti che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali, sono stati esposti in musei, biennali, dOCUMENTA.
Nel 2020 la galleria si arricchisce dell’ingresso in società di Francesca Simondi e cambia nome, diventando PEOLA SIMONDI.
Opened in 1989 by Alberto Peola in a 19th-century building in Turin, the gallery’s attention has always been focused on young and emerging artists, combining attention to the Italian art scene and dialogue with leading figures on the European and international stage. The gallery was the first in Italy to show the work of Botto&Bruno (1996), Martin Creed (1999), Lala Meredith-Vula (2002), Michael Rakowitz (2006) and Emily Jacir (2007).
Always alert to new trends expressed through highly personal solutions using a broad range of media, from photography and painting to video and installation, the gallery works with a notable number of internationally recognised artists who have shown their work in museums and at biennials and other major events, including dOCUMENTA.
In 2020, the gallery joined forces with Francesca Simondi, changing its name to PEOLA SIMONDI.
Exhibits
09.06.2023 - 21.07.2023
opening: 08.06.2023
09.06.2023 - 21.07.2023
18:00 > 21:00
La galleria Peola Simondi è lieta di presentare Specchi per le allodole, prima mostra personale di Chiara Baima Poma (Cuorgné – TO, 1990) a cura di Clara Sofia Rosenberg.
Nelle opere di Chiara Baima Poma elementi ancestrali e spirituali si contaminano, dando vita a un racconto visivo del nostro presente, che indaga il senso di identità e appartenenza dell’artista. Baima Poma guarda ai grandi maestri del Gotico pittorico italiano. Sono infatti evidenti nelle sue opere i riferimenti a Giotto, Simone Martini, Duccio di Buoninsegna, Giovanni da Milano, Pietro e Ambrogio Lorenzetti. I soggetti, da lei rivisitati, creano un nuovo immaginario pittorico che trae linfa espressiva dalla narrazione popolare, dai detti, dai proverbi e dai modi di dire del nostro presente. Chiara Baima Poma si è diplomata nel 2010 a Torino presso l’Accademia Albertina di Belle Arti. Vive e lavora a Gran Canaria. Nel 2022 vince il premio Global Talent Art Prize. Nello stesso anno espone presso lo spazio Green Alley Studios e la Black White Gallery, a Londra, dove torna nel 2023 con la personale It Costs To Be Austere. Nel 2023 presenta le sue opere all’Ely Centre Of Contemporary Art di New Haven (Connecticut) nella mostra Embodied Knowledge.
CSR Guardando i tuoi quadri si percepisce un’ispirazione legata ai viaggi. In che modo questa passione ha guidato la tua produzione?
CBP Sì, è vero, fin da quando ho lasciato l’Accademia di Belle arti di Torino ho seguito il mio istinto migratore, che mi ha portata a unire la sperimentazione artistica al viaggio: una fonte per me da cui attingere elementi misteriosi e affascinanti per comporre la scenografia delle mie opere. Elementi culturalmente esterni alla mia quotidianità, non ancora assimilati, che spiccano nel panorama e stuzzicano la mia curiosità estetica, al punto da volerli inserire in un mio dipinto. Viaggiare è per me l’inizio di un modo per creare un nuovo linguaggio, ma anche un tema di possesso: possedere un’esperienza. Mi interessa l’intreccio di vite e di saperi, ho voglia di appropriarmi del linguaggio degli altri per mescolarlo nel calderone delle culture.
CSR Andando più in profondità, in quale modo i tuoi viaggi sono stati integrati alle tue opere?
CBP Dopo vari spostamenti, vivo alle isole Canarie da diversi anni: trovandomi di fronte al continente africano, ho avuto molti contatti con quelle terre e ho sviluppato una fascinazione per gli elementi arabeggianti, come si può vedere nell’opera Mettere il dito nella piaga, che riprende una struttura architettonica che ho visto in Senegal. Dei miei viaggi in Asia, invece, restano elementi paesaggistici e gioielli, come le rocce in Dormire con un occhio solo, o gli agghindi della protagonista di Chi dorme non piglia pesci, con i suoi scintillanti orecchini indiani.
CSR Mi sembra di capire che nei tuoi dipinti i personaggi siano soprattutto donne. Perché?
CBP In effetti, le protagoniste dei miei quadri sono spesso delle “me” che vogliono fare parte del mondo che creo tramite l’intreccio di svariate culture, come se io, tramite il tempo del racconto, costruissi un luogo che mi permette di rifugiarmi.
I personaggi dei miei dipinti sono tutte donne perché tramite la pittura io parlo di me stessa, ed è più facile per me mettermi nei loro panni, piuttosto che in quelli degli uomini.
Le donne sono il mio mezzo di racconto.
CSR Se le donne non sono le protagoniste ma soltanto il tramite, qual è per te il vero soggetto delle tue opere?
CBP Il tema delle mie opere è una nostalgia di tutto quello che è passato o lontano, che è ancora desiderabile, sognabile o idealizzabile: tutto quello che non è solido o tangibile e che si può ancora interpretare secondo la propria fantasia. È un mondo onirico, ma soprattutto un rifugio dalla realtà, perché la realtà è già scritta, quindi scontata, mentre il mondo delle idee non delude mai, in quanto perfetto.
CSR Si nota nella costruzione delle tue immagini un forte rapporto con la scenografia e il teatro, è possibile?
CBP In realtà, nelle mie ricerche non vi è una predominanza legata al mondo del teatro, ma piuttosto a quello del racconto. In entrambi i casi, comunque, si tratta di incorniciare scene tramite visioni di luoghi, architetture e luci, sorrette dalla suspence della recitazione.
Il teatro è, però, troppo in movimento rispetto ai miei dipinti, dove è tutto molto statico, come se fosse la cornice di una storia dove i personaggi fingono di stare fermi, come attori immobili in un racconto pedagogico, un passo religioso o una novella con la morale.
Spesso, nella mia produzione si ritrovano riferimenti al gotico italiano e alla religione. Mi piace immaginare che la struttura degli stessi racconti per immagini che venivano fatti nelle chiese per dialogare con il popolo, (come le storie di San Francesco dipinte da Giotto nella Basilica superiore di Assisi) possa essere oggi reinterpretata e riproposta. Ritroviamo nei miei dipinti questi rimandi in elementi come le ali degli angeli in Pueblo pequeño, infierno grande1 o in Chi ha il pane non ha i denti, così come nelle prospettive appiattite che fungono da omaggio al Medioevo, periodo ricchissimo di storia e spiritualità dal quale attingo voracemente per continuare la creazione dei miei mondi.
CSR Venendo a questa specifica mostra Specchi per le allodole, di cosa tratta?
CBP Il tema di questa mostra sono i proverbi: frasi popolari che ricreano un luogo dove i miei personaggi possono trovare un escamotage per fare qualcosa, nel mondo in cui io vorrei vivere.
I proverbi sono detti che derivano da un retaggio culturale che esiste da sempre e che figurano in tutte le civiltà: addirittura gli stessi in lingue diverse. Questa tradizione rappresenta per me un sapere dalla fonte irrintracciabile, una saggezza pura, la cui memoria è priva di presunzione.
Un giorno, pensando al proverbio “avere una bella gatta da pelare”, ho incominciato a chiedermi quale fosse la sua origine; sembra che, già prima del Settecento, in Inghilterra, esistesse l’espressione idiomatica “there are more ways than one to skin a cat”, che suona più o meno così: “esistono tanti modi diversi per fare una cosa difficile” e che fosse riferita al fatto che, secondo un’antica terribile usanza inglese, il manto dei gatti venisse usato per ricavarne pellicce. Riflettendoci era proprio bizzarro immaginarsi il detto privo del suo significato, in modo puramente figurativo: era divertente e crudo allo stesso tempo. Questo ha dato il via al mio progetto dei proverbi, un percorso che può addirittura trasformarsi in un progetto di vita.
CSR Il mondo che ricrei è un mondo di tutti, ma nel quale tu ricostruisci la tua interiorità. Le ambientazioni delle tue opere però non somigliano molto al mondo “perfetto”, c’è del realismo e al contempo della fantasia…
CBP C’è una componente di avventura e di incognita al di sopra di noi: il mistero, vero protagonista delle mie opere. Esse sono oniriche e leziose, ma hanno anche tratti inquietanti e crudi.
Creando un mondo fantastico, infatti, non cerco di occultare la realtà, anzi, piuttosto di farla emergere, come un rifugio dalla delusione che essa genera; un’alternativa idealizzata.
L’ambientazione dei miei quadri consiste in un mondo prescientifico, dove l’uomo non pensa di poter risolvere ogni cosa, ma si affida a una forza più grande di lui, in una vita dove tutto è ancora possibile, dove si può ancora avere fede nel non conosciuto. Si tratta di un mondo ante-progresso che non sta più in piedi, che nasce dalla mia esigenza di sperimentare una vita che non è auspicabile, né veramente possibile: al contempo realista e fantasiosa, cruda e straziante, ma magica, che si può rivivere solo attraverso l’uso del mito, della metafora e dell’inverosimile.
Clara Sofia Rosenberg e Chiara Baima Poma
21.04.2023 - 01.06.2023
opening: 20.04.2023
21.04.2023 - 01.06.2023
H 18:00 > 21:00
orario: martedì-sabato, 15:00 > 19:00
testo di Federica Martini
Tagliata da un tratto obliquo, la parola Forget/Fullness evoca una paradossale “pienezza nella dimenticanza”. Eva Frapiccini sceglie questo termine disgiunto a titolo della sua mostra personale presso la Galleria Peola Simondi, che interroga la condizione dell’immagine in un mondo visualmente saturo, dove il volume e la tipologia di fotografie digitali in circolazione è inversamente proporzionale alla nostra capacità di ricordare. L’artista presenta una serie di istantanee analogiche che registrano eventi marginali. Le fotografie ritraggono aspetti secondari normalmente relegati alla nostra visione periferica: fotografare il margine rivela dinamiche di luce e trame materiali, l’inquadratura si libera dal compito di documentare e catturare un’informazione centrale. Le immagini rappresentano emozioni, ma non raccontano, poiché l’artista le sottrae al compito di trattenere tracce di eventi specifici. Laddove gli archivi di Eva Frapiccini insistono solitamente sulla preservazione e sull’importanza di ricordare, in Forget/Fullness la fotografia è utilizzata per creare un archivio singolare di momenti da dimenticare.
Nel posare il suo protocollo di lavoro per Forget/Fullness, l’artista collega la nozione contemporanea di offloading (scaricamento) cognitivo e la delega del ricordo al cloud con l’esperienza analogica descritta da Italo Calvino nell’“Avventura di un fotografo” . Scritto nel 1970, quando una prima “follia del mirino” crea l’illusione che la macchina fotografica possa registrare totalmente e in scala 1:1 la realtà, il racconto segue la conversione di Antonino Paraggi da non-fotografo diffidente a “cacciatore dell’inafferrabile” e invasato fotografo dilettante: “L’unico modo d’agire con coerenza – sostiene Paraggi – è di scattare almeno una foto al minuto, da quando apre gli occhi al mattino a quando va a dormire. Solo così i rotoli di pellicola impressionata costituiranno un fedele diario delle nostre giornate, senza che nulla resti escluso”.
In Forget/Fullness, il tentativo estremo di Antonino Paraggi di documentare ogni istante e la sua fiducia nella capacità della fotografia di ricordare ciò che accade veramente sono sospesi e scardinati. Se “la fotografia promette potere poiché propone di rendere visibile la verità”, scrive la storica dell’arte Griselda Pollock, è nello “sguardo fotografico” che si uniscono “il visibile e l’invisibile, la presenza e l’assenza”. All’evento memorabile che la fotografia tradizionalmente censisce si associano quindi, con pari importanza, il fatto visivo secondario e il punto cieco. Come in altri progetti Frapiccini si concentra sugli elementi sussidiari di questi binomi. Che si tratti di ricordare “la polvere” di esperienze oniriche soggettive in Dust of Dreams, o di marginali annotazioni e minute scritte a margine di documenti storici in Il Pensiero che non diventa Azione avvelena l’Anima, il processo documentario dell’artista mira, in primo luogo, a catturare la dimensione emotiva e psicologica dei grandi eventi del passato. Il suo sguardo si sofferma sui
materiali che gli storici non tratterebbero e che in gergo archivistico la storica Arlette Farge chiama gli “scarti”: documenti inclassificabili, incompleti, corrosi e maltrattati dal tempo, e quindi parzialmente illeggibili.
C’è un contrasto sorprendente tra la fragilità dei documenti incompleti e la pienezza informativa in cui ci immergono oggi i social media, poiché la fotografia digitale è nel contempo effimera e duratura, legata all’instante presente, ma potenzialmente ri-postabile. La riapparizione di un’immagine digitale non è più determinata dalla sua rilevanza storica, osserva Eva Frapiccini, ma dalla carica emozionale che riveste per chi la seleziona. Nell’economia dell’attenzione e della memoria visiva condivisa, la fotografia diventa quindi affettiva e sociale in un altro senso. Conservata dai social media, riassume un insieme di dati, senza confrontarci con “l’intensità sonora e sensoriale” dell’immagine che racconta (Tina M. Campt) né suscitare la coesione sociale propria a ogni atto di memoria collettiva (Allan Sekula). All’archiviazione eseguita dallo storico professionista o da chi, come gli artisti, comprende l’importanza che un documento visivo riveste per una determinata comunità, si sostituisce una privatizzazione dell’atto mnemonico, che si manifesta, ma di fondo, e aldilà del lessico adottato dai social media (share), non si condivide.
A questa ingiunzione, Eva Frapiccini oppone una ridistribuzione delle responsabilità visive, attribuendo alla memoria umana l’evento rilevante e alla macchina ciò che resta fuori fuoco. La visione decentrata implica un’attenzione alla materialità del ricordo. Se il corpo è assente dalle fotografie di Forget/Fullness, a implicarlo è l’uso della macchina fotografica Hasselblad che richiede all’artista un processo eminentemente fisico: l’apparecchio si tiene all’altezza della pancia, gli intervalli di scatto straordinariamente lenti rispetto alla rapidità cui ci ha abituati lo smartphone. Si tratta di tentare l’operazione irreale preannunciata da Calvino di “dare un corpo al ricordo per sostituirlo al presente davanti ai suoi occhi”.
Federica Martini
Eva Frapiccini
Untitled (dalla serie Forget/Fullness), 2023
stampa fine art ai pigmenti su carta baritata, 30×30 cm courtesy dell’artista e della galleria Peola Simondi.
17.02.2023 - 08.04.2023
opening: 16.02.2023
17.02.2023 - 08.04.2023
La ricerca di Victoria Stoian si esprime in un linguaggio pittorico ricco di forme e segni di natura astratta, con i quali traduce la sua esperienza del reale. Stilizzazioni, come le definisce l’artista, che affiorano dall’inconscio, attingono alla memoria e al suo procedere per frammenti, dando vita a un personale codice visivo. In esso si intrecciano dettagli di luoghi e di cose, punti di vista, sensazioni e stati d’animo, dove convivono gioiosi ricordi d’infanzia e il dramma dei conflitti bellici. Ampie campiture dai colori tenui sono attraversate da stesure a volte rarefatte altre più dense, che nascondono ciò che già era tracciato e depositano sulla superficie forme minute, a tratti simili a qualcosa che conosciamo, tratteggi, profili, punteggiature imprevedibili nell’andamento e nella morfologia. Una sorta di psicogeografia, poiché inerente luoghi e paesaggi, che sono da sempre al centro della sua ricerca, ma con il ritmo di un racconto che procede per strati e continue variazioni, di quadro in quadro.
In occasione della sua terza personale alla Galleria Peola Simondi, Victoria Stoian ha concepito la mostra come un progetto unitario cadenzato in tappe, che dall’ingresso conducono all’ultima sala, dominata da un grande intervento pittorico site-specific realizzato direttamente sulla superficie muraria, in due settimane di lavoro costante e immersivo.
Il titolo della mostra è La Moldava, in riferimento al famoso brano scritto dal compositore ceco Bedřich Smetana nel 1874, il più noto dei sei poemi sinfonici che compongono Ma vlast, in italiano La mia patria. In piena adesione al clima culturale romantico, la sinfonia celebra infatti l’identità nazionale ceca e la sua rinascita nell’impero austriaco, attraverso il richiamo al paesaggio percorso dalla Moldava, il più grande fiume della Boemia, evocato da pittorici timbri sonori. Cresciuta a Chisinău, in Moldavia, Victoria Stoian ha già intitolato a un fiume, il Nistru (Dnestr), il suo monumentale progetto pittorico Nistru Confines: avviato nel 2018, si compone di ormai oltre 400 opere che ripercorrono la lunghezza del fiume, assunto a confine della Transnistria quando nel 1990 questa regione secessionista confinante con l’Ucraina si è autoproclamata indipendente. Il paesaggio evocato da Stoian è dunque un territorio geopolitico, luogo comune di ogni discorso sull’identità, che diviene sottotesto alla “vita delle forme” che abitano ciascuna sua tela, inscrivendo nella preziosa stratificazione pittorica questioni drammatiche come l’esilio, la migrazione, le guerre, che dall’infanzia dell’artista giungono alla tragica realtà dei nostri giorni, in Ucraina e altrove
Già nei suoi primi cicli pittorici, il paesaggio era rappresentato in condizioni di alterazione, causata da eventi naturali come i cambiamenti termici (Recea Project, 2014) o i devastanti sommovimenti sismici (Codri Earthquake, 2013-2017) che avevano lasciato il segno sulla terra quanto nella memoria collettiva. Come dire che l’instabilità – che i suoi quadri esprimono nei frequenti sbilanciamenti generati dalla concentrazione di segni in aree liminali e aeree – è una condizione dovuta sia alla costante trasformazione della materia che al nostro modo di abitare il mondo, di fare diventare “patria” ogni porzione di spazio. Proprio alla natura ambivalente del confine, che separa e genera chiusura, ma crea anche un senso di protezione, come osserva l’artista, è dedicato questo ciclo di lavori. Il paesaggio come paese, come casa, idealizzato nei ricordi giovanili, si unisce al tema dell’identità declinata nelle figure diasporiche della straniera e dell’esule: la moldava. Il grande dipinto sul soffitto diviene così il luogo di un’apertura, una sorta di affaccio verso uno spazio immenso, immaginifico, come quando da bambina, sdraiata sotto gli alberi, osservava il cielo incorniciato “dall’abbraccio degli alberi”. A quell’immagine si aggiungono frammenti di altre immagini, di cose viste o vissute, e l’intera mostra, come il poema sinfonico di Smetana, sembra seguire il fluire del fiume verso il mare.
Victoria Stoian, Nistru Confines, 2022-2023, acrilico su tela, 50×50 cm, courtesy dell’artista e della galleria Peola Simondi
28.10.2022 - 14.01.2023
opening: 27.10.2022
28.10.2022 - 14.01.2023
La galleria partecipa a:
TORINO ART GALLERIES NIGHT #25
SABATO 5 NOVEMBRE 2022 ore 17,00 – 24,00
&
TAG Art Coffee Breakfast
venerdì 4, sabato 5 e domenica 6 novembre dalle ore 9:30 alle ore 12.
La mostra In Prestissimo di Fatma Bucak affronta il modo in cui lo sradicamento, la perdita e la violenza si manifestano nella precarietà del mondo naturale. La modalità scelta è quella di sostenere narrazioni e storie oscurate, che altrimenti sarebbero destinate alla rimozione. Lo spazio espositivo si trasforma in un archivio, o in una sinfonia di resistenza attraverso il suono, l’immagine e il video, portando nella mostra il suono lungo, forte e letale dell’inquietudine della natura. L’effetto è tanto di sconforto per ciò che accadrà che di speranza per ciò che rimarrà.
Didascalia immagine:
Fatma Bucak, They burned it all, 2022
Two channel video installation, HD, colour, and sound, 4 min. 17 sec – 8 min. 47 sec.
courtesy dell ‘Artista e della Galleria Peola Simondi
Project realized with the support of Italian Council (2022)
20.05.2022 - 08.10.2022
opening: 19.05.2022
20.05.2022 - 08.10.2022
Nell’arco di un anno, dal 14 febbraio 2019 al 13 gennaio 2020, Paola De Pietri ha percorso le campagne dell’Emilia-Romagna seguendo il susseguirsi delle stagioni. Il progetto, pubblicato nell’omonimo volume dalla casa editrice Marsilio nel 2021, è composto di 34 sequenze di immagini sia a colori che in bianco e nero, corrispondenti ad altrettante giornate dell’anno trascorso. Le fotografie di ogni giornata sono presentate in una installazione che disegna nell’alternanza dei pieni e vuoti la frammentarietà della nostra percezione e della complessità dei fenomeni.
Dal testo di Antonello Frongia, Documenti possibili, in Paola De Pietri, Da inverno a inverno, edizione Marsilio, 2021
Sin dalle prime tavole, Da inverno a inverno di Paola De Pietri si presenta come un attraversamento della geografia e insieme come un viaggio nello sguardo, una sorta di diario di bordo che registra una lunga serie di esercizi di visione condotti nell’arco di un anno solare in luoghi e paesaggi rurali dell’Emilia-Romagna. Da un lato, questo impegnativo corpus fotografico ci propone per sintesi – attraverso micro-sequenze corrispondenti a giornate di lavoro in località identificate – un catalogo di quadri ambientali nei quali hanno luogo attività produttive fondamentali per l’economia e l’identità della regione. Dall’altro, sotto l’apparenza di una descrizione precisissima e insistita, si affaccia continuamente un dubbio non articolato, una pulsione del vedere che non corrisponde a nessun interrogativo finalizzato, ma che potrebbe tradursi con l’espressione: «Che cosa è qui?». Da una presa di posizione decisa nella vastità della geografia – per Paola De Pietri, un punto di vista spesso rialzato e chiarificatore, non di rado in un accenno di controluce – l’occhio riflette contemporaneamente sulla complessità dei segni che si dispiegano nello spazio («Che cosa c’è qui davanti?») e sull’atto stesso di osservarli («Che cosa significa qui?»).
A percorrere e animare Da inverno a inverno è questa tensione tra presenza e distanza, tra la soggettività dello sguardo e la precisione dell’immagine, tra l’io implicito di un osservatore nascosto e l’autoevidenza del paesaggio. Paola De Pietri si colloca nel solco di un pensiero saggistico che nel contatto materiale con il mondo, nel tastare l’esterno con piedi mani occhi, trova motivo e necessità per una riflessione informata sul proprio andare e sul nostro essere nei luoghi.
[…] Lo sguardo di Paola De Pietri non si confronta solo con temi e soggetti del paesaggio rurale già sedimentati nella coscienza collettiva – l’aia, la stalla, gli animali da allevamento, la casa colonica, il silo per i mangimi, la serra, le trame colturali, l’orografia – ma si sofferma regolarmente su configurazioni e strutture più complesse, osservate da una distanza calibratissima che condensa per lo spettatore (attraverso un’utile finzione) l’esperienza del camminare e la sospensione chiarificatrice della visione aerea. Così nelle ampie vedute strutturare attorno alle linee della maglia viaria, ma anche delle osservazioni più dettagliate di una via poderale, o nella piega di un semplice sentiero, le fotografie non declinano mai verso l’evocazione romantica di un infinito ignoto, ma restituiscono il senso pregnante di un paesaggio percorso nei secoli dai corpi e dai mezzi, battuto dagli usi e dalle consuetudini, misurato dalle necessità e dalle giornate di lavoro, forse anche banalizzato dallo streamlining della modernità industriale, ma sempre pienamente vissuto e vivente.
Analogamente, la generale assenza di persone in questo viaggio da inverno a inverno non corrisponde a una sospensione elegiaca nel tempo ideale del «c’era una volta». Nella leggerezza dei grigi non si gioca il trucco pittorico di un tonalismo avvolgente e mistificatorio, ma si ritrova uno sguardo ancora una volta esattissimo, persino cerebrale, nel cogliere la materia di una luce che struttura il paesaggio non meno di strade ed edifici, strumento di misura del qui e ora, cesello che per via di levare dà splendore alle cose.
Il colore interviene a tratti, improvviso, chirurgico, a dissipare ogni tentazione di caduta nell’inganno di un “sentimento oceanico”. Allo stesso modo, frammenti incongrui del paesaggio come “bene immobiliare”, identificati nel vivo di un mondo rurale a prima vista immutato, si inseriscono nel silenzio del viaggio come schegge di vetro infilate in un meccanismo che scorre: la linea di demarcazione di un muretto in calcestruzzo con rete zincata spezza la continuità della terra per stabilire il confine della proprietà privata; un muro con inferriata in ferro battuto si incunea sull’erba creando il nuovo qui di un giardino all’inglese.
06.04.2022 - 07.05.2022
opening: 05.04.2022
06.04.2022 - 07.05.2022
Per la seconda mostra personale alla galleria Peola Simondi, Cornelia Badelita presenta il progetto Continuu. I nuovi dipinti, realizzati tra il 2021 e il 2022, sono tavole dal formato insolito, alte dieci centimetri e lunghe un metro, disposte lungo le pareti all’altezza dello sguardo, con ritmo regolare. Se da lontano appaiono come moduli seriali, in una visione ravvicinata si rivelano originali nature morte, i cui elementi occupano, l’uno accanto all’altro, uno scabro piano d’appoggio.
Le lunghe tavole di Badelita nascono da una riflessione sulla predella, la fascia dipinta che solitamente faceva da corredo alla pala d’altare. Posta al di sotto dello scomparto centrale, aveva una funzione sia pratica, nascondere lo zoccolo inferiore della cornice, sia concettuale, estendere la narrazione con scene accessorie. Dal punto di vista linguistico, ogni predella è un parergo, ossia un’appendice, un elemento ausiliario. Continuu è, dunque, immaginato come una lunga nota a piè di pagina, come una digressione che si estende al di là di una narrazione a noi ignota.
Ispirazione del ciclo è la sconvolgente tavola di Hans Holbein il Giovane che raffigura Il corpo di Cristo morto nella tomba (1521). Il dipinto, che perseguitava Fëdor Dostoevskij, è di fatto una predella, un drammatico e maestoso parergo, alto poco più di trenta centimetri e lungo due metri, alla narrazione generale. Della scena, che segue la vita terrena di Cristo e precede quella ultraterrena, Badelita estrapola l’idea di un tempo e di un luogo sospesi, in cui la narrazione sembra congelarsi. A ricordo dell’opera rimane un panno bianco che, solitario, appare in una delle tavole in mostra.
Nello spazio allungato di queste moderne predelle, l’artista dispiega insolite nature morte, in cui l’amore per la pittura fiamminga si unisce all’indagine delle proprie ossessioni e della propria esistenza quotidiana. A oggetti di affezione che raccontano l’esperienza della maternità (colorate sculture modulari in mais, stelle filanti, palloncini ecc.) sono mescolati elementi tratti dai dipinti intimisti di Adriaen Coorte, misterioso artista vissuto alla fine del XVII secolo, di cui si conoscono poche opere dal sapore naïf. Il piano disadorno e il fondo scuro e cieco sono un omaggio a Coorte, così come le fragole selvatiche e le pesche che Badelita dissemina qua e là e duplica, generando nello spettatore una perturbante sensazione di déjà vu.
Nei dipinti dell’artista la duplicazione delle immagini è intesa sia come replicazione di iconografie e stili tratti dalla storia dell’arte sia come vero e proprio procedimento tecnico. Per soddisfare questa necessità di reiterazione, Badelita si è costruita un nuovo strumento per dipingere, di cui fa uso insieme a quelli tradizionali: un doppio pennello costituito da due pennelli congiunti per mezzo di un distanziatore. Difficile da maneggiare, questo strumento produce immagini per metà nitide e per metà sfocate, in cui figurazione e astrazione, volontà e caso sembrano mescolarsi. La pittura è così libera, finalmente strappata alle sue implicazioni mimetiche.
I dipinti di Badelita si muovono cautamente lungo il confine tra figurazione e astrazione, staticità e dinamismo, inazione e narrazione, passato e presente, cultura alta e popolare. Predelle o strisce di fumetti, sequenze di immagini allegoriche o registrazioni automatiche di associazioni inconsce: poco importa classificarle. Quel che più conta è che la loro messa in forma svolga per l’artista una funzione diaristica, se non terapeutica, di registrazione sismografica delle proprie ossessioni. Non sorprende perciò che come titolo della mostra sia stato scelto l’aggettivo rumeno continuu (“continuo”), in cui anche graficamente la ripetizione finale della vocale “u” rende l’idea di un processo cadenzato, che non ha fine.
11.02.2022 - 26.03.2022
opening: 10.02.2022
11.02.2022 - 26.03.2022
La ricerca artistica di Francesca Ferreri (Savigliano, 1981) indaga il rapporto tra restauro e algoritmi matematici come spunto poetico per un processo scultoreo che analizza la materia nella sua dimensione spazio-temporale e percettiva.
29.10.2021 - 29.01.2022
opening: 28.10.2021
29.10.2021 - 29.01.2022
PROROGATA FINO AL 29 GENNAIO 2022
“Oltre la soglia della cella III”
di Gregorio Botta
Sono andati in uno dei luoghi più sacri e riservati della pittura, il Convento di San Marco di Firenze, affrescato dal Beato Angelico solo per i suoi occhi e quelli dei monaci: non per il pubblico cui l’accesso era precluso. E hanno scelto il luogo più intenso e raccolto, la cella III, dove si manifesta l’Annunciazione più essenziale e rivoluzionaria dell’epoca (e degli anni a venire): dove l’Angelo e la Vergine condividono per la prima volta lo stesso spazio mentre un caldo chiarore illumina il muro del loggiato che li racchiude. Sergio Gioberto e Marilena Noro sono andati fin lì per raccogliere quell’atmosfera germinale, scegliendo un dettaglio, un quadrato per la precisione (inquadrare: non è questo che fanno i fotografi?), che contiene il vero protagonista dell’affresco: non Gabriele, non Maria, ma la luce. E hanno posato il loro sguardo dove il muro si poggia sul pavimento, dove il verticale si unisce all’orizzontale e un piccolo scarto di tono certifica la congiunzione dei due mondi: una linea dell’orizzonte metafisica che segna il confine tra cielo e terra, È il Luogo geometrico dell’essere (omaggio a Beato Angelico), così hanno titolato questo lavoro che annuncia e genera tutti gli altri: un viaggio in sette tappe nel silenzio e nell’attesa.
Dunque ogni cosa comincia da qui, da una pittura sapienziale del Quattrocento (d’altronde questa mostra include nel titolo le Figure del dissimile, care a tal punto a Didi-Huberman da denominare così il suo saggio sul Beato Angelico) e arriva fino a Malevič, un altro maestro che inseguiva l’assoluto. Non a caso Gioberto Noro hanno ingrandito quest’immagine per portarla alle stesse misure (79,4×79,4 cm) dei suoi quadrati neri e bianchi, icone contemporanee che Malevič collocava nel luogo deputato in Russia alle immagini sacre: l’angolo della stanza dove due pareti incontrano il soffitto (ancora una congiunzione di orizzontale e verticale) e da lì proteggono la casa.
Siamo ai confini del vuoto, un vuoto gravido di pieno, annunciazione di vita che sta per schiudersi all’esistenza. Lo stesso vuoto che si apre tra le due mani di Renaissance (after Malevič) virate in blu: il blu spirituale di Klein, ma anche il blu di Ad Reinhardt, un altro pittore in cerca di assoluto, e soprattutto il blu lapislazzuli evocatore dell’ultraterreno rinascimentale. Il maestro del Suprematismo, tornato alla figurazione, dipinse nel 1933 una Woman worker con le braccia semiaperte in una posizione del tutto innaturale: si può spiegare solo immaginando che le mani sorreggano un bambino. Quella operaia sarebbe dunque una figura del dissimile, una Madonna che abbraccia un piccolo Gesù che deve ancora manifestarsi. Assenza assai più potente della presenza.
Di quest’assenza gravida di energia ci parlano Gioberto Noro. Ci hanno abituato ai loro teatri del vuoto, maquette costruite ad hoc, ma più vere del vero, per dare una casa all’enigma. Ma qui diventano più leggere e rarefatte, quasi immateriali, una vertigine di bianchi nei quali perdersi per ritrovarsi: irrorate da una luce segreta, deus absconditus che non può svelarsi, ma rivela il mondo. Sono inquadrature verticali (ed è la prima volta che la coppia di artisti usa questo formato), a sottolineare una tensione verso il cielo, un’architettura che aspira all’alto. E infatti si chiamano Altissima luce. È ancora la luce la protagonista di Cronocamera, dove la più elementare delle strutture cambia sotto i nostri occhi mantenendo inalterata la sua natura: quella di soglia sull’infinito, acceso di un blu profondo e intenso. Una macchina perfetta della perdita d’occhio.
orario:
martedì–sabato, 15.00-19.00
MATTINO SU APPUNTAMENTO
09.06.2021 - 14.10.2021
opening: 08.06.2021
09.06.2021 - 14.10.2021
Inaugurazione: martedì 8 giugno 2021 | h 15>21
Testo di Francesca Comisso
A poche settimane dai bombardamenti in Palestina che hanno riacceso l’attenzione dei media, il film che Emily Jacir presenta a Torino, insieme a fotografie e film stills, in occasione della sua terza personale presso la Galleria Peola Simondi, ci conduce al di fuori della nozione di contingenza. Realizzato nel 2019, letter to a friend, è un viaggio nel tempo e nello spazio, che inizia e si conclude con i passi dell’artista, in un percorso che dal presente guarda al futuro e al passato, e ha nel suolo il suo punto fisico e simbolico di ancoraggio: il pavimento di una casa, di un giardino, di una strada. letter to a friend racconta nel dettaglio un secolo di vita di una casa e una strada di Betlemme, alternando riprese video, fotografie, suoni, materiali storici, frutto delle ricerche e della documentazione prodotta nel corso di molti anni di lavoro dall’artista e dal suo archivio. Nel film la dimensione biografica familiare intreccia quella storica di un paese, la Palestina, polverizzato in territori e comunità diasporiche in permanente stato d’assedio. È uno sguardo situato, che parte proprio dalla casa dell’artista, costruita dal bis bis nonno archivista e amministratore di Betlemme, e da lì osserva e percorre, nello spazio e nel tempo, il costante ridisegno di confini, l’erosione progressiva del territorio, la contrazione dei passaggi, in una crescente condizione claustrofobica che ha la sua evidenza fisica nel grande muro eretto nel 2004 , “barriera di sicurezza” per Israele e “muro dell’Apartheid” per i palestinesi. Esso sorge a 200 metri da casa Jacir e divide il quartiere: “il muro non ci separa da Israele, ci separa da noi stessi”: il suo movimento nel corpo della città isola i luoghi, li nasconde e con effetto predatorio ingloba terreni, beni privati, patrimonio culturale. Insieme ai check point, al filo spinato e alle postazioni di controllo, sorte spesso con funzione simbolica e psicologica di intimidazione prima ancora che di effettivo potere operativo, esso ridisegna i luoghi e le forme dell’abitare secondo un’urbanistica di guerra. Il film si apre con l’immagine di alcune delle migliaia di bombe a gas lacrimogeni, ad alta tossicità, raccolte dall’artista nel giardino di casa, una drammatica unità di misura della quotidianità che avvelena i corpi e la vita di chi abita lungo la strada che collegava Gerusalemme a Hebron, da tempi immemori percorsa dal flusso costante dei viaggiatori e dei pellegrini, e ora divisa dal muro e occupata dai soldati israeliani. Il racconto filmico si arresta talvolta nell’iconica fissità del fermo immagine: la sagoma scura di un corpo immobile, avvolto dalla nebbia fitta e bianca dei gas, senza luogo, diventa emblematica di una condizione esistenziale, sociale e politica, che è sempre insieme individuale e collettiva. Negli spazi della galleria, il film trova una sorta di punteggiatura concettuale, emozionale e sottilmente poetica in una selezione di fotografie e film stills: la Luna, un soffitto animato dalla bellezza incongrua di un fiore, un cassonetto capace di trasformarsi in baluardo della resistenza, un reperto bellico. La voce narrante di Emily Jacir accompagna il fluire delle immagini e dei suoni, che il suo racconto restituisce allo statuto di documenti, di prove: fotografie e filmati, girati in parte dall’autobus, percorrendo la strada e i suoi dintorni, osservando negli anni la progressiva crescita di un insediamento che ha lentamente preso il posto di un bosco su un terreno confiscato, le vigne da vino che sopravvivono al peso dei massi e della strada con cui sono state schiacciate, così come alle incursioni distruttive dei coloni. Mappe cartografiche, immagini aeree, fotografie storiche, custodite nell’archivio personale, permettono di osservare nel tempo i cambiamenti dei luoghi, come il grande palazzo di famiglia, costruito nel 1910 accanto alla casa e perduto già negli anni trenta per i rovesci della fortuna, diventato poi Hotel Jacir, dove la musica assordante e la stolta euforia dei matrimoni si può alternare al fuoco dei cecchini. Alcuni materiali visivi “in presa diretta” rimandano ai linguaggi del giornalismo di strada, che ci ha abituati a trovarci difronte ai soprusi e alle ingiustizie che si consumano nelle piazze e nelle strade della città del mondo. Rendere visibile l’ingiustizia, agire dove sono stati commessi abusi e violazioni dei diritti umani, partendo dagli edifici, è l’obiettivo di Forensic Architecture, gruppo multidisciplinare fondato da Eyal Weizman. È lui l’amico artista cui Jacir indirizza la sua “lettera” visiva, con la richiesta di aprire ufficialmente un’indagine “prima che venga commesso un crimine”, prima che la casa venga occupata dai coloni, come altri luoghi e spazi in Palestina, in modo progressivo e inarrestabile, senza che quasi ce ne si rendesse conto. Da una città ridotta al 13% del suo territorio e con diciotto insediamenti illegali che premono sui suoi margini, l’artista affida alla conoscenza, al valore probatorio dei documenti e alla sua stessa testimonianza e presenza fisica, la funzione di una contromisura, di un drammatico tentativo di anticipo su una violenza “attesa”. L’oscillazione del tempo sulla quale è costruito il film ha subito in questi giorni un paradossale rovesciamento, in cui il presagio è diventato documento di attualità: il 15 maggio scorso, la casa di Emily Jacir è stata forzata e occupata temporaneamente dall’esercito israeliano come postazione di attacco durante i conflitti a fuoco. Da alcuni anni è sede del centro d’arte Dar Yusuf Narsi Jacir for Arts and Research, creato dall’artista, che ne è direttore esecutivo e vi lavora con Aline Khoury, con residenze artistiche internazionali e una programmazione culturale ed educativa rivolta alla popolazione locale. Come riportano molti articoli usciti su Art Forum, Art News, The Art Newspaper e altre riviste d’arte internazionali, ci sono stati ingenti danni a tutto l’edificio, comprese la casa e lo studio dell’artista, gli uffici sono stati saccheggiati e confiscati computer, hard drives, macchine fotografiche, telefoni, libri. Anche il giardino, usato per azioni di agricoltura urbana, è andato a fuoco. L’amico evocato dal titolo letter to a friend, interlocutore reale e insieme artificio della narrazione, è anche il “tu” rivolto al pubblico, a noi, chiamati a un ascolto vigile, invitati a pensare, oltre le forme inattive della compassione e dell’indignazione morale, come Susan Sontag auspicava pensando al ruolo delle immagini “davanti al dolore degli altri”. Il film letter to a friend è stato commissionato dal Fisher Center a Bard, dove nel novembre 2019 ha avuto la sua anteprima mondiale al Live Arts Bard Biennial.
BIOGRAFIA Emily Jacir è artista e regista, e vive nell’area del Mediterraneo. Con la sua ricerca affronta questioni legate alla traduzione, ai processi di trasformazione e di resistenza, alle narrazioni messe a tacere dai discorsi egemonici. Il suo lavoro indaga il movimento personale e collettivo attraverso lo spazio pubblico e le sue implicazioni sull’esperienza fisica e sociale dello spazio e del tempo transmediterranei, e si sviluppa attraverso media espressivi che includono la fotografia, il cinema, la scultura, l’installazione, i gesti performativi e la ricerca storica e d’archivio. Ha ottenuto importanti riconoscimenti e premi tra cui il Leone d’Oro alla 52a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia per la sua opera Material for a film (2007); il Prince Claus Award dal Prince Claus Fund all’Aia (2007); l’Hugo Boss Prize dal Guggenheim Museum di New York (2008); il Herb Alpert Award for the Arts dalla Herb Alpert Foundation, Santa Monica CA (2011); e l’Andrew W. Mellon Foundation Rome Prize Fellow all’American Academy in Rome (2015). Tra le sue personali si segnalano quelle presso Alexander and Bonin, New York (2018); IMMA (Irish Museum of Modern Art), Dublino (2016-17); Whitechapel Gallery, Londra (2015); Darat il Funun, Amman (2014-15); Beirut Art Center (2010) e il Guggenheim Museum, New York (2009). Ha inoltre esposto in musei e centri d’arte tra cui al Museum of Modern Art, New York; San Francisco Museum of Modern Art; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Fondazione Merz, Torino, e in importanti rassegne espositive: dOCUMENTA (13) (2012) e dOCUMENTA (14) (2017) a Kassel; dal 2007 a cinque edizioni consecutive della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia; Biennale di Sharjah Emirati Arabi Uniti (2005, 2011); 29° Bienal de São Paulo, Brasile (2010); 15° Biennale di Sydney (2006) Whitney Biennial (2004) e 8° Biennale di Istanbul (2003).
Didascalia immagine: Emily Jacir, zbala, 2019, archival pigment print, 101×152 cm, courtesy Galleria Peola Simondi
24.04.2021 - 29.05.2021
opening: 24.04.2021
24.04.2021 - 29.05.2021
Scenari emotivi è la seconda mostra personale di Paolo Bini (Battipaglia, 1984), a cura di Beatrice Audrito.
In mostra una decina di opere inedite, frutto della sua ultima fase di ricerca, realizzate appositamente per gli spazi della galleria torinese, dove Bini affronta la tematica del paesaggio approfondendo la riflessione sulle sue modalità di rappresentazione contemporanea. Ampliando l’orizzonte narrativo della sua ricerca, l’artista si rivolge al paesaggio con uno sguardo nuovo: il paesaggio quale luogo fisico ma anche luogo interiore, più intimo e recondito, con il quale stabilire connessioni profonde.
Scenari emotivi si configura dunque come un dialogo aperto tra due tipologie di lavoro apparentemente lontane ma intimamente legate: i cosiddetti “nastri” –opere di matrice più astratta con le quali Bini ha delineato in questi anni il suo peculiare linguaggio– dove, servendosi del nastro carta, l’artista frammenta e deframmenta l’immagine che poi riemerge tra le righe orizzontali o verticali del quadro rievocando il paesaggio osservato, in una sintesi di derivazione digitale capace di restituirne la sensazione emozionale; e i “cieli”, vibranti superfici cromatiche dai colori intensi, visioni primordiali e senza tempo che offrono a chi osserva una visione totalizzante del colore, uno spazio in cui immergersi per ritrovarsi. Esposte per la prima volta nella galleria torinese, i “cieli” sono l’esito di una pittura più libera e immediata che affianca la produzione dei “nastri” sin dal 2015, quale occasione di riflessione e matrice per esperienze più ampie. La nuova personale fa il punto sulla ricerca attuale di Bini, che dimostra ancora una volta l’urgenza di esplorare tutte le possibilità della pittura per rinnovare costantemente il suo linguaggio espressivo, rimettendo in discussione materiali e processi tramite un’indagine acuta e puntuale sugli elementi primi della pittura, la luce e il colore, che trova qui una sintesi nuova, nel segno dell’emotività. Opere aperte, paesaggi e scenari emotivi, luoghi del sé capaci di aprire nuovi spazi e finestre sul mondo che dialogheranno con un grande wall painting realizzato dall’artista su una parete della galleria, quale occasione di lavorare in situ per misurarsi con lo spazio architettonico e ricreare preziose assonanze cromatiche.
La mostra segna una tappa importante del percorso artistico di Paolo Bini che torna a esporre alla galleria Peola Simondi –con la quale collabora dal 2017– dopo anni di importanti mostre pubbliche e riconoscimenti internazionali come la vincita del XVII Premio Cairo (2016) e, nello stesso anno, la mostra personale Left Behind alla Reggia di Caserta, seguita da Mediterraneo rosso e oro al Museo Riso di Palermo (2018), l’entrata nelle Collezioni Intesa Sanpaolo a seguito della mostra Paolo Bini. Spazi immensi (2019) e infine, la recente vincita del concorso Un triclinio per Nettuno, per la realizzazione di un’opera permanente destinata al Parco Archeologico di Paestum.
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PAOLO BINI (Battipaglia, 1984)
Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Le sue opere sono state presentate in istituzioni nazionali e internazionali, tra le quali CaMusAC Cassino (2020), ISCP New York (2019), Gallerie d’Italia Milano (2019), Museo Riso Palermo (2018), Museo MADRE Napoli (2017), Reggia di Caserta (2016), Palazzo Reale Milano (2016), Casa Ariosto Ferrara (2014), Provenance House Cape Town (2013), Museo de Arte Religioso Iglesia de San Francisco de Asís Avana (2010), Palazzo Bianco Genova (2010). Nel 2016 ha vinto la XVII edizione del Premio Cairo. Nel 2019 è entrato a far parte delle Collezioni di Intesa Sanpaolo che gli dedicano la personale Paolo Bini. Spazi immensi, alla Fiera Internazionale Miart. Scenari emotivi è la sua seconda personale alla Galleria Peola Simondi di Torino, dopo La pittura, giorno dopo giorno, a cura di Luca Beatrice (2018). Nella primavera del 2021 una sua opera entrerà a far parte della collezione d’arte contemporanea del Parco Archeologico di Paestum.